Il caso delle zone 30 esplode dopo la presentazione, qualche settimana fa, di una ricerca dell’urbanista Carlo Ratti all’Urban Mobility Council di Boston.
Una slide, inserita nella cartella stampa ma non proiettata durante la conferenza, indica che le città che adottano il limite dei 30 orari fanno aumentare l’inquinamento. Decine di testate rilanciano la notizia e il ministro Matteo Salvini gongola: «Finalmente anche gli studi ci danno ragione».
Anche a Padova, dove la prima zona 30 risale al 2019 nel rione Palestro e dove il limite è in vigore su 55,7 chilometri di asfalti urbani, l’opposizione di centrodestra torna a contestare la misura: «Si va più lenti e si inquina di più», tuonano i consiglieri di Fratelli d’Italia. «Una buona amministrazione dev’essere attenta alla scienza: si sospendano le zone 30 fino a che non si fa uno studio che certifichi la loro utilità anche a Padova».
In realtà nelle stesse ore l’autore della ricerca, cioè Ratti, deve smentire il messaggio che è passato sui media: «Lo scostamento dei dati sull’inquinamento è irrisorio, ma i benefici sono enormi: riduzione degli incidenti (-23%), della mortalità (-37%) e dei feriti (-38%). E in casi scuola come a Parigi l’impatto sociale ed economico è stato notevole nelle strade interessate». Ma da allora, nonostante i chiarimenti, il dibattito è rimasto aperto.
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Si è fatto un sacco di clamore intorno a quello studio sulle zone 30. Ma le conclusioni - che erano un po’ forzate e poi lo si è capito - hanno alimentato tante polemiche politiche, più o meno strumentali, sostenute da chi ha sempre osteggiato i provvedimenti che limitano la velocità dei veicoli, perché ritenuti inutili, se non addirittura dannosi. Ma per chi ritiene che queste conclusioni siano vere la realtà è differente». Francesco Tosato, presidente di Legambiente Padova, non perde il suo aplomb, ma sulle zone 30 si scalda facilmente.
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Quella presentazione ha riaperto un dibattito che, dopo la sperimentazione a Bologna, sembrava essersi orientato a favore delle zone 30.
«Problemi così complessi - perché la gestione del traffico lo è - vanno analizzati partendo dalla loro complessità. E gli studi scientifici bisogna saperli interpretare per evitare di arrivare a conclusioni facili e fuorvianti come è successo in questo caso. Tanto che gli autori dello studio hanno voluto chiarire meglio i risultati».
Partiamo dalla cattiva interpretazione di quello studio.
«L’impatto complessivo della riduzione dei limiti di velocità - e dell’istituzione delle zone 30 - porta a una riduzione netta dell’emissione di gas, lo dimostrano i dati raccolti in tutte le città. Ma queste misure devono essere abbinate ad altre, come la promozione del trasporto pubblico e l’uso della bicicletta, che sono parte integrante delle misure con cui si istituiscono le zone 30. Il punto centrale è questo: limitare la velocità, promuovendo la mobilità pubblica e sostenibile».
Lo studio del Mit, invece...
«Considerava le velocità medie e l’inquinamento che ne deriva. Ma non gli effetti totali che il limite comporta. Un’auto con motore a combustione che va a una velocità media di 30 km orari emette tendenzialmente più inquinanti e gas serra di una che va a 70 orari, ma la velocità media e i limiti di velocità sono due cose diverse».
Tra l’altro non si considerava - o si sottovalutava - il tema della sicurezza.
«Il motivo principale per cui vengono istituite le zone 30 è la sicurezza stradale, molto incrementata da questi provvedimenti, come evidenziano tutti gli studi di settore. Ma c’è un cambio di paradigma nell’uso degli spazi urbani, che dovrebbero essere sempre più dedicati alle persone e non alle auto. Lo dice il nuovo Piano regionale di tutela e risanamento dell’atmosfera, che indica come strategico introdurre misure che migliorino le condizioni sociali e ambientali delle aree urbane, come le Ztl, le aree pedonali e le zone a velocità 30».
C’è però il nodo dei tempi di percorrenza: chi contesta le zone 30 sostiene che aumentano sensibilmente.
«Lo studio - sempre quello - stima un aumento dei tempi di spostamento che va dai due agli 89 secondi confermando quanto sempre affermato da chi sostiene la Città 30 con il limite a 30 km/h anziché 50 km/h, la differenza dei tempi di percorrenza è al massimo di qualche minuto. Non è un caso che questi provvedimenti sono sempre più diffusi e adottati da città europee come Graz, Grenoble, Valencia e Zurigo. Ci si perde in pretestuose polemiche per sottrarsi al necessario cambiamento, per non mettere in discussione vecchi modelli deficitari».
«Per come si sta sviluppando in questi giorni, il dibattito sull’opportunità di istituire o estendere le zone 30 mi sembra molto politico e poco tecnico. La realtà, per chi studia queste cose, è che si tratta di misure che hanno un’utilità molto vicina allo zero». Vittorio Pollini, docente di Tecnica urbanistica al dipartimento di Ingegneria dell’Università di Padova, va dritto al punto, senza girarci troppo intorno, lasciando ai politici tutti i distinguo del caso. «Le zone 30 non servono praticamente a nulla, sono una misura demagogica. Anzi, paradossalmente aumentano i problemi e non riducono il numero di incidenti».
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Però un conto è essere investiti da un’auto che viaggia a 50 o 60 all’ora, un conto è se l’auto viaggia a 30. Su questo è d’accordo?
«Solo in parte. Intanto c’è un dato statistico che non si può sottovalutare: muovendosi a 30 all’ora, si sta più tempo in auto e dunque aumenta il rischio. Non solo: a quella velocità si diventa insofferenti, si assumono comportamenti innaturali, che non si avrebbero muovendosi senza un limite così stringente. In strade larghe poi, quel limite è ancora più insensato. Avrebbe senso su strade strette, ma qui in Italia ce ne sono ben poche».
Lei è contrario anche alle zone a traffico limitato?
«No, ma è un discorso diverso. Le Ztl sono sicuramente importanti - direi addirittura fondamentali - per governare il traffico. In molti contesti, semmai, dovrebbero essere rimodulate, aggiornate, per funzionare meglio».
E cosa pensa dei blocchi della circolazione istituiti per contenere l’inquinamento atmosferico? Qui a Padova, come nel resto del bacino padano, ormai sono una consuetudine dall’autunno alla primavera.
«Sono palliativi. Misure a cavallo tra il demagogico e la propaganda. Però serve una premessa...».
Mi dica.
«Queste misure hanno sicuramente il merito di richiamare l’attenzione su un problema che non va sottovalutato. Sono uno strumento utile per fare informazione, sensibilizzazione. Ma a parte questo...»
Non servono?
«Gli effetti pratici sono irrisori. E, aggiungo, in definitiva non ripagano neppure gli sforzi che comporta l’adozione di misure di questo tipo. Se facciamo i conti mettendo insieme tutti i vantaggi e gli svantaggi, forse il totale ci dice che l’utilità è minima, con pochissimo margine».
Li abolirebbe?
«Il tema è politico. Io mi limito a osservare che ci sono tanti disagi, che si risparmia qualcosa in termini di emissioni, ma che il totale è positivo per poco, pochissimo».