Gli ultimi avvenimenti politici aprono uno spiraglio positivo sul futuro della stabilità internazionale e lasciano sperare in una risoluzione pacifica dei conflitti che in questo momento infiammano il mondo. Matteo Renzi ha infatti dichiarato conclusa “la stagione dei veti” aprendo a un’alleanza con tutte le forze progressiste, dal PD di Elly Schlein all’Alleanza Verdi-Sinistra di Bonelli e Fratoianni, passando per il Movimento 5 Stelle targato Giuseppe Conte.
L’obiettivo è alto e nobile: mandare a casa il governo di Giorgia Meloni, che secondo il leader di Italia Viva potrebbe cadere prima del termine di questa legislatura. A questo punto non è più tabù ipotizzare la fine delle tensioni tra Russia e Ucraina o una distensione nei rapporti tra israeliani e palestinesi. Se Renzi ha deciso di seppellire i rancori e di sedersi al tavolo con l’odiatissimo Conte, allora vuol dire che c’è speranza anche per i teatri di guerra più sanguinosi. I fraseggi col pallone e gli assist al bacio del senatore di Rignano per Schlein durante la Partita del Cuore, conditi da sorrisi e abbracci a favore di telecamere, agli occhi degli elettori progressisti rappresentano il viatico per la costruzione di una coalizione che possa finalmente competere con il centrodestra e mettere fine al regno di Meloni e soci. Per carità, nella vita tutto può succedere: chi siamo noi per impedire ai nostalgici del centrosinistra unito di sognare ad occhi aperti.
Resta però difficile immaginare come un’allegra brigata così eterogenea possa evitare di soccombere sotto il peso delle proprie divisioni e scongiurare il remake delle fallimentari esperienze de L’Ulivo e L’Unione con Romano Prodi. Nel 1996 e nel 2006 il Professore riuscì a battere Silvio Berlusconi alle urne, ma entrambe le esperienze di governo ebbero vita breve a causa dei capricci dei suoi alleati e del fuoco ‘amico’: basti pensare a Fausto Bertinotti, che scendeva in piazza per protestare contro il governo di cui faceva parte; o a Clemente Mastella, responsabile della crisi che nel 2008 portò alla caduta del secondo governo Prodi.
Gli attuali alfieri del cosiddetto campo progressista potrebbero anche vincere le prossime elezioni politiche, accomunati dall’obiettivo di sconfiggere Meloni. Governare, però, è un’altra cosa. E la nuova armata Brancaleone che va profilandosi appare priva delle più basilari condizioni per impostare una civile coabitazione. Come si comporteranno i protagonisti del campo largo quando, per esempio, arriverà il momento di adottare una posizione unitaria sull’invasione russa dell’Ucraina e sul sostegno a Kiev? Prevarrà la linea di Conte – accusato più volte da Renzi di essere filo-putiniano – sullo stop all’invio di aiuti militari a Zelensky o quella del fondatore di IV, improntata a un atlantismo convinto? E sui temi relativi alla giustizia cosa decideranno di fare i due ex presidenti del Consiglio? Il giustizialismo dei grillini come si concilierà con il garantismo dei renziani di fronte a questioni sensibili come intercettazioni e separazione delle carriere?
Un primo antipasto di questa sarabanda lo abbiamo avuto pochi giorni fa con la manifestazione di Genova, che ha visto Schlein e Conte chiedere a gran voce le dimissioni del governatore Giovanni Toti, agli arresti domiciliari da maggio nell’ambito della maxi inchiesta che sta terremotando la politica ligure. Una piazza a cui Italia Viva ha scelto di non prendere parte. “Non ho mai chiesto le dimissioni di un politico perché indagato. Non inizierò adesso. Puoi chiedere le dimissioni per ragioni politiche, cosa che abbiamo fatto anche con Toti. Ma mai abbiamo chiesto dimissioni per una indagine”, ha dichiarato Renzi.
Per non parlare poi di tematiche come lavoro e politiche sociali: a tal proposito, il referendum contro l’autonomia differenziata – al quale Italia Viva ha aderito insieme a PD, M5S e AVS – potrebbe tenersi insieme a quello sul Jobs Act, la riforma del lavoro approvata dal governo Renzi e osteggiata da pentastellati e sinistra. “Difendo e difenderò sempre il Jobs Act”, assicura Renzi. Non è dello stesso avviso il Movimento 5 Stelle, che ha sempre visto come fumo negli occhi il provvedimento simbolo della stagione di governo renziana.
Tutto questo senza considerare le forti acredini (eufemismo) che si sono accumulate negli anni tra Renzi e Conte, entrambi leader dall’ego ipertrofico. Il rapporto tra i due ex inquilini di Palazzo Chigi è stato burrascoso sin da subito ed è proseguito negli anni in un crescendo di attacchi reciproci, battute al veleno o addirittura insulti. L’unica, breve parentesi amichevole nell’agosto del 2019, quando Renzi – all’epoca ancora esponente del PD – grazie alla sua ‘mossa del cavallo’ impedì il voto anticipato e la quasi certa vittoria della Lega di Matteo Salvini, mantenendo Conte alla guida del nuovo governo giallorosso.
Il machiavellico disegno del senatore di IV (imbattibile quando si tratta di distruggere, meno efficace quando arriva il momento di costruire un progetto politico a lungo termine) aveva un fine molto più ambizioso. La scissione dal PD con la nascita di Italia Viva fu il preludio di una manovra di ampio respiro che, attraverso uno stillicidio quotidiano, portò alla defenestrazione di Conte nel gennaio 2021 e alla sua sostituzione con Mario Draghi. Un piano che si sarebbe concretizzato molto prima se non fosse stato per la pandemia di Covid-19 scoppiata all’inizio del 2020.
Con la perfidia che gli è propria, Renzi ha rivendicato ogni volta che ha potuto la bontà della decisione di licenziare Conte, vantandosi in ogni intervista di aver di aver sottratto l’avvocato del popolo alle responsabilità di governo per restituirlo alle diatribe con Di Maio e Toninelli. Da allora sono volati solo schiaffi tra i due. Troppi gli esempi da citare, mi limito a ricordarne un paio. Nell’ottobre 2022 l’ex sindaco di Firenze bollò il reddito di cittadinanza come “voto di scambio” scatenando le ire di Conte. “Venga a parlare di reddito di cittadinanza tra la gente senza scorta”, la risposta del capo M5S nel corso di un comizio a Palermo. “Un linguaggio da mafioso della politica”, tuonò Renzi.
Altra puntata della hate story nel gennaio del 2023, quando Conte venne paparazzato in un hotel di lusso a Cortina. Renzi colse subito la palla al balzo per affondare il colpo: “Legittimo andare negli hotel 5 stelle. Quello che non è legittimo è giocare sulla rabbia della gente aizzando il popolo del reddito di cittadinanza contro gli altri politici che vanno negli hotel 5 stelle. Questo è moralismo senza morale”. Non si contano, poi, le polemiche sull’attività di conferenziere di Renzi, che per Conte rappresenterebbero un caso macroscopico di conflitto di interessi. “Mi deve aver scambiato con uno dei colleghi del suo studio legale che durante la pandemia si occupavano di mascherine. A proposito: a quando la commissione di inchiesta sul Covid?”, la replica piccata dell’ex segretario PD a ‘Giuseppi’ che lo accusava di badare ai suoi “affari personali”.
Che tutto questo possa essere cancellato con un colpo di spugna è pura utopia. L’apertura di Renzi a Conte sta infatti creando divisioni all’interno della stessa IV. E anche Conte non sembra proprio entusiasta di questo abbraccio (chissà come mai): “Renzi fino ad ora si è vantato di aver mandato a casa il governo Conte in piena pandemia, e oggi dice che Conte è assolutamente un suo interlocutore privilegiato? Beh, la politica per noi è una cosa seria”. Ma se ci fosse ancora qualche dubbio sulla solidità delle future relazioni tra Conte e Renzi nel segno di questa nuova santa alleanza, a fugare ogni perplessità ci pensa Goffredo Bettini, nume tutelare del campo largo: “Bene l’apertura di Renzi – dice al Foglio il grande suggeritore dei dem – ora tentiamo un nuovo centrosinistra”. Per gli appassionati del genere, di solito la benedizione del vate Goffredo equivale a una sentenza: finirà a schifio.
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