«Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei Wasp, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente la povertà è una tradizione di famiglia». J.D. Vance, scelto da Donald Trump come candidato alla vicepresidenza degli Usa; Vance l’astro nascente della destra americana, si presenta così nel romanzo autobiografico “Hillbilly Elegy”, pubblicato in Italia da Garzanti con il titolo un po’ banale e un po’ fuorviante di “Elegia americana”. Il fatto è che c’è poco di edificante nel termine hillbilly, una parola dura e discriminatoria, ma che James David (J.D.) rivendica con orgoglio per sé e per la comunità umana da cui proviene. «I loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori, e infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari) redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari».
È un caso davvero straordinario quello di Vance candidato repubblicano alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Straordinario innanzi tutto perché J.D. rappresenta quello che meno ci si potrebbe aspettare da un aspirante numero 2 alla casa Bianca appartenente al Grand Old Party. È uno che non viene dal mondo dei ricchi e dei privilegiati, ma dai poveracci dell’America profonda. Uno che a un certo punto della sua vita ha dovuto sbarcare il lunario facendo lavori pesanti. «Un amico di famiglia mi ha proposto di andare a lavorare con lui in un’azienda di distribuzione delle piastrelle che aveva sede poco lontano dalla mia città natale», si legge sempre nel suo libro. «Le piastrelle sono pesantissime, da un chilo e mezzo a tre chili l’una, e sono imballate quasi sempre in cartoni da otto a dodici pezzi. Il mio compito principale era caricare le piastrelle su un pallet e prepararlo per la spedizione. Non era un lavoro leggero, ma mi pagavano 13 dollari all’ora e avevo bisogno di quei soldi…». Non ci si deve certo stupire se un tipo così, cioè l’opposto antropologico del damerino cresciuto tra party e feste varie, possa suscitare naturale empatia nel popolo degli svantaggiati che si propone di rappresentare.
L’altro fatto straordinario di James David è che la vita di un candidato alla vicepresidenza degli Usa è raccontata, per l’appunto, in un libro. Di solito i politici si raccontano quando sono anziani e in pensione. Vance invece la sua vita l’ha raccontata a 30 anni (oggi ne ha 39) e molti americani lo conoscono già. “Hillbilly Elegy” è un best seller e, dal 2020 ,è anche un film prodotto da Netflix, interpretato, tra gli altri, da Glen Close (nel ruolo della nonna del protagonista).
Per noi italiani questo romanzo offre l’opportunità, non solo di conoscere l’uomo nuovo della politica americana, ma anche di entrare in presa diretta con la “rabbia” del popolo Maga (Make America Great Again), vale a dire il popolo che gonfia da otto anni le vele del consenso di Trump perché è stato dimenticato dalla politica e sacrificato agli interessi del grande capitale globale. Sono i “forgotten men” , gli operai del Midwest e le loro famiglie che, negli ultimi decenni, hanno visto il famoso “ascensore sociale” funzionare al contrario (non verso l’alto, ma verso il basso) per effetto delle delocalizzazioni, degli accordi commerciali di libero scambio (il Nafta), dell’invasione dei prodotti cinesi. Sono la classe lavoratrice e la classe media in declino che hanno abbandonato il Partito democratico perché si sono sentite tradite. A questo popolo declassato, che sprizza rancore da ogni poro, Trump e Vance promettono riscatto e nuova grandezza. «Lotteremo per i cittadini americani. Per il loro lavoro e per i loro salari», ha detto il candidato vicepresidente alla convention di Milwaukee.
Grazie al suo libro autobiografico, che ha in realtà il respiro e la forza di un’autobiografia collettiva, apprendiamo la profondità, la storicità e la radicalità di questa rabbia di popolo. «È stato lo spostamento dei Grandi Appalachi (catena montuosa nel Nord degli Usa n.d.r.) dal Partito democratico al Partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Gradi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica». E poi una frase che esprime una grande tristezza, una tristezza dell’anima: «La mia patria è un luogo di infelicità».
Già, la propria terra come «luogo di infelicità». È una scrittura potente quella di James David Vance, una scrittura che fa venire in mente (fatte naturalmente le debite differenze) la forza narrativa di John Steinbeck in “Furore” del 1939. Anche nel grande scrittore californiano c’è il racconto di una crisi sociale, la Grande Crisi degli anni Trenta, attraverso le peripezie di una famiglia piombata nella povertà. Anche in Steinbeck c’è rancore, tristezza, senso di giustizia negata.
Certo, in “Hillbilly Elegy” è tutto più contenuto. E non c’è quel respiro epico che l’autore di “Furore” seppe infondere nel suo libro. Ma c’è comunque il sentimento di un grande dramma nazionale. Ci sono la storia e la politica riportate alla loro dimensione umana. C’è la prova che le grandi passioni collettive non sono che l’essenza di innumerevoli drammi individuali e familiari. Solo così, solo raccontando senza filtri l’America reale, si può capire cosa c’è dietro Donald Trump come fenomeno pop. E perché ora J.D. Vance assurge al ruolo di autocoscienza collettiva di questo mondo in fermento permanente. La politica attraverso i suoi protagonisti. E non attraverso gli stereotipi diffusi dai media al di qua dell’Atlantico.
L'articolo Fenomeno Vance, l’autobiografia dell’America arrabbiata ma che non si arrende al declino sembra essere il primo su Secolo d'Italia.