Madame Luna continua dove ci aveva lasciato Io Capitano di Garrone. Proprio sul suolo italiano di una banchina del porto del Meridione, coperte termiche e controlli sanitari, dove sbarca anche Almaz (Meninet Abraha Teferi). Una donna eritrea trafficante di esseri umani che, a seguito della caduta del regime libico, è costretta a fuggire anch’essa verso l’Italia sfidando la traversata del Mediterraneo. Nulla di tragico.
La sublimazione della morte in mare è materia di flusso onirico per la protagonista (e lo spettatore) che riappare carsicamente nel film senza troppo spettacolarizzare i cadaveri a galla sfiorati da Almaz con le mani. Qui il problema, invece, è terribilmente politico morale. Perché tra le strutture di accoglienza, le autorità, le cooperative e il mondo del lavoro italiano sono tutti corrotti o appartenenti al mondo criminale. Tanto che una delle malavitose locali, che diventa amica dell’eritrea, e la fa lavorare dandole comunque un ruolo nella gerarchia “imprenditoriale” dei migranti, ad un certo punto le confessa: “I soldi del ministero finiscono nelle cooperative che sono tutte nostre, intestate a parenti e amici, i soldi in contanti vengono puliti e investiti per il nostro piacere”.
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Insomma le coordinate del bene e del male scricchiolano rispetto a qualsivoglia dramma migrante del recente passato. Oltre a fare la parte della severa kapò, rapidamente in ascesa, strigliando i raccoglitori di olive, Almaz non passa inosservata tra chi ha fatto la traversata sui barconi. Perché fino a qualche settimana prima era lei a minacciare persone da spedire in Italia dopo avergli spillato ogni avere. La donna verrà riconosciuta con il suo soprannome (Madame Luna) da Eli, una ragazzina con un fratello prigioniero nelle carceri libiche ma anche nuova mira sessuale per un pericoloso mafiosetto locale. Almaz le farà improvvisamente da chioccia, quasi a voler ripulire con quel gesto il suo indecente passato. Dovendosi avventurare tra bisogno di realismo storico (le migrazioni nel Mediterraneo) e gli schemi più fittizi di una narrazione di genere (thriller), il regista e sceneggiatore Daniel Espinosa fonde atmosfere sospese ed accattivanti da noir con esigenze di verismo fisico-corporeo tanto da optare per una ricorrente soggettiva e semisoggettiva di Almaz per osservare, fendere, introdursi nei diroccati, spuri, circoscritti spazi filmati dove i migranti sono trattati come schiavi.
Madame Luna vive di questa originalità di sguardo cinico e femminile sul tema, forse un po’ troppo melodrammatico sul finale (non si è tutti De Palma quando c’è una sparatoria mortale in pochi istanti), comunque mai indulgente verso i suoi torvi personaggi. Sceneggiano oltre a Espinosa per il taglio femminile sul punto di vista della profuga Suha Arraf e trasferendo quell’ansia di irrespirabilità oltre il perimetro criminale di (e da) Gomorra il sempre ottimo Maurizio Braucci che, appunto, lavorò con Garrone sul testo di Saviano. Anteprima italiana in questi giorni al Taormina Film Festival di Marco Müller. Espinosa è il regista del recente marveliano Morbius con Jared Leto.
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