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Il nonno ordinò la strage nazista di San Polo, lei si inginocchia sulla lapide delle vittime: Laura Ewert e l’abbraccio con i nipoti dei superstiti

San Polo è una delle tante croci lungo la sterminata scia di sangue lasciata nel 1944 dalle truppe naziste in ritirata dall’Italia: prima di Sant’Anna di Stazzema, prima di Monte Sole. Una strage uguale e diversa alle decine di eccidi di cui si macchiarono i tedeschi: uguale nelle motivazioni (provocare il terrore della popolazione e stroncare la Resistenza partigiana), sempre diversa nelle modalità comunque feroci e spietate. A San Polo morirono in 65 tra partigiani e civili, comprese 8 donne, 8 anziani, un neonato. A falciare le loro vite, il 14 luglio di ottant’anni fa, furono i militari tedeschi che appartenevano al 274esimo reggimento granatieri della 94esima Infanterie-Division, cioè soldati della Wehrmacht. Arezzo sarebbe stata dichiara liberata due giorni dopo.

A ordinare quel massacro fu il colonnello Wolf Ewert. Ha 39 anni, è figlio di un ufficiale prussiano, nei ritagli di tempo dipinge con gli acquerelli, è appassionato di opera lirica. Non conosce una vita al di fuori degli schemi militari. In un diario, dieci giorni prima dell’eccidio di San Polo, aveva scritto: “I continui incidenti con i banditi e l’uccisione di soldati tedeschi mi hanno spinto a prendere provvedimenti molto duri contro i partigiani catturati”. Più avanti aggiungerà: “Grave disturbo causato da azioni partigiane, che furono però combattute con successo”. Un processo di radicalizzazione che non interrogò mai la sua coscienza, come è accaduto spesso con gli ufficiali al servizio del Terzo Reich, e che insanguinò la Toscana.

E’ sua nipote Laura, che di lavoro fa la giornalista, a chiedere per lui perdono, dopo ottant’anni. Si è inginocchiata oggi, nell’anniversario di quella storia nera, davanti al cippo che a San Polo ricorda le 65 vittime: è arrivata da Berlino per “ascoltare e capire”, ha detto. Ha sottolineato il “valore della testimonianza e del ricordo perché, certi episodi, non si verifichino più”. Una settimana fa era scoppiata in lacrime, durante un convegno a Civitella in Valdichiana, altro teatro di una strage nazista, mentre sentiva la descrizione di come avvenne la strage ordinata da suo nonno. Laura ha raccontato di aver scoperto per caso la storia del padre di suo padre, circostanza che la riempie di “tristezza, dolore e vergogna” e che adesso vuole raccontarla al figlio, agli amici e sul giornale in cui scrive.

Oggi, dopo aver deposto i fiori sulla lapide di Villa Gigliosi, dove furono trucidate molte delle vittime, Laura Ewert ha abbracciato Alessia Donati, nipote di una sopravvissuta all’eccidio. “Per me è l’ora dell’ascolto, dalle testimonianze e dagli incontri voglio capire perché tutto ciò successe. Perché mio nonno dette ordine di sparare. Viviamo tempi difficili, con guerre in corso e questo dimostra che non siamo del tutto fuori dal pericolo dal fatto che certi momenti possano essere vissuti nuovamente”. Ad accompagnare Ewert a San Polo è stato tra gli altri Udo Gumpel, giornalista che lavora da decenni sull’approfondimento delle stragi nazifasciste in Italia. Dice: “E’ una delle rare volte in cui il discendente di un nazista chiede scusa e questo è il valore del gesto di Laura”. Tra queste c’è la storia di Andreas Schendel, che ilfattoquotidiano.it ha raccontato dieci anni fa: suo zio fu tra “gli assassini di Sant’Anna di Stazzema” come li chiamò lui in una lettera che inviò a Enrico Pieri, uno dei superstiti dell’eccidio dell’Alta Versilia. “Dopo i funerali di mio zio – scrisse Schendel in quella lettera – mio padre ha parlato con i familiari e tutti negavano quello che era successo. Il fatto che gli assassini e le loro famiglie potevano continuare a vivere soltanto con la menzogna e l’inganno di se stessi e che gli assassini non hanno vissuto bene, mi fa pensare che forse anche lì c’è una forma di giustizia”. Schendel ha visitato poi Sant’Anna, ha conosciuto Pieri, ha visitato il museo con i “poveri” oggetti delle vittime trucidate dai nazisti con la complicità dei fascisti del posto. Anche Schendel, durante quella visita, si abbandonò a un pianto a dirotto.

L’eccidio di San Polo fu organizzato nei giorni in cui il Cln di Arezzo decideva che era il momento di occupare la città. I tedeschi rastrellarono decine di persone nei paesi di Pietramala e Molin dei Falchi – dove i tedeschi hanno scoperto dei rifugi partigiani anche grazie a un disertore – e incendiarono le loro abitazioni. Ne seguì una marcia della morte: i prigionieri che non riuscivano a stare al passo venivano uccisi (una donna incinta, dei bambini, degli anziani). E più il cammino proseguiva più la coda si allungava con altri catturati a Vezzano, Castellaccio e Villa Mancini dove sono organizzati interrogatori e torture di cui sono vittime anche alcuni capi partigiani. Ewert a quel punto ordinò di fucilare tutti: alcuni sono costretti a scavare delle fosse. Gli italiani furono allineati e uccisi con un colpo alla nuca. Secondo una testimonianza tra le vittime ci fu anche un oste che si era presentato al comando tedesco per protestare contro il mancato pagamento di un conto. Le fosse comuni poi furono fatte saltare in aria con candelotti di dinamite. La sera dopo la strage, il comando tedesco lasciò la villa e il giorno seguente le truppe tedesche abbandonarono San Polo. Gli esami medico-legali diranno che non tutti erano morti dentro a quelle buche scavate nel terreno del giardino della villa quando furono fatte esplodere. Quella detonazione fu l’ultimo miserevole tentativo – non andato a buon fine – di far sparire le prove del massacro e delle torture, forse. Così disse – intervistato proprio da Gumpel – uno degli imputati, un ex sottotenente, Klaus Konrad, che più tardi è diventato anche consigliere del cancelliere socialdemocratico Willy Brandt. Tutti i processi agli ex militari che parteciparono all’eccidio sono finiti con archiviazioni e assoluzioni. Konrad durante l’interrogatorio nel processo aveva ammesso i fatti, aveva raccontato anche dettagli agghiaccianti e si era dichiarato non colpevole. Per lui non ci fu sentenza perché morì prima che fosse pronunciata.

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