Guarda te, ci pagano per divertirci...» raccontava agli altri e a se stessa Irene Grandi agli inizi della sua avventura nei panni di frontwoman. I primi indimenticabili passi sul palco del Be Bop di Firenze, un locale storico, «una palestra», come ama definirlo lei che in quel periodo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, promuoveva i suoi show con una locandina-poster molto artigianale. «Era un collage di quattro fotografie fotocopiate che avevamo appeso davanti al locale. C’ero io con la giacca che mio padre aveva indossato il giorno del suo matrimonio, sotto solo il reggiseno e un paio di leggings... Io e la band che mi accompagnava prendevamo trentamila lire a testa, però eravamo felici, c’era un’atmosfera bellissima in quelle serate. Erano altri tempi: i discografici e i produttori andavano a scovare i talenti nei locali...» racconta oggi che sono passati trent’anni dal suo primo omonimo album (da adesso disponibile anche in vinile).
«Ero un po’ controcorrente agli esordi perché non appartenevo alla scena fiorentina new wave rock come i Litfiba e nemmeno al cantautorato, ero più affine al blues e alla musica black, e poi mi aveva stregato il film Blues Brothers» ricorda. Tra le tante hit della sua storia ce n’è una, Bum Bum, con cui decise di non partecipare al Festival di Sanremo. «A Pippo Baudo era piaciuta la mia esibizione dell’anno precedente all’Ariston, così pensò di coinvolgermi di nuovo, ma io non avevo un album pronto e, a metà anni Novanta, era inimmaginabile andare al Festival senza un disco da pubblicare subito dopo. Non solo: Bum Bum, secondo me, non era un pezzo sanremese, non aveva niente della classica ballad, e io di andare lì per perdere non avevo proprio voglia, quindi rinunciai facendo storcere il naso al caro Pippo. Sono fatta così...» ribadisce nella nostra intervista e anche nel testo della sua ultima canzone, Fiera di me: «Ma dimmi tu cos’è una donna che non sa rischiare».
Quando si inanellano hit per tanti anni, la tentazione di molti artisti è diventare cantanti/jukebox, replicando senza fine quei dieci, quindici ritornelli che funzionano sempre in qualunque contesto. Una tattica un po’ alienante, ma sicuramente vincente, o, se non altro, rassicurante. Per molti, almeno, ma non per tutti: «Sono sempre stata un po’ ribelle e non solo con la mamma... Seguo il mio istinto, anche nella carriera. Dopo il 2010 ho iniziato a chiedermi come si fa ad essere un’artista felice in un mercato sempre più veloce, spietato e improntato al business per il business che ti chiede senza sosta un successo dietro l’altro. In un ambiente fatto in questo modo ho iniziato a pensare che forse “mi ero persa un po’ l’Irene”... Così, mi sono regalata una pausa, ho iniziato a dire no a certe proposte imparando a pronunciare dei nuovi sì, come quello che ho detto a Stefano Bollani. Abbiamo inciso un album insieme e suonato nei teatri: stupendo. Mi piace mettermi alla prova e al tempo stesso mettere alla prova il pubblico che mi segue con spettacoli come Io in Blues (il 27 luglio al Festival Internazionale del Jazz a La Spezia), un viaggio da Otis Redding a Sade, con alcuni miei pezzi riarrangiati in chiave blues rock».
Il nuovo millennio di Irene è iniziato con una sorpresa, un pezzo scritto per lei da Vasco Rossi e Gaetano Curreri, La tua ragazza sempre: «Il nostro incontro iniziò stappando bottiglie di champagne, un tripudio di bicchieri che tintinnavano tutt’intorno a noi... Il bello è che io non avevo ancora ascoltato la canzone, che a quel punto non avrebbe potuto non piacermi (ride di gusto, ndr). Una volta sentita, ci ho messo un attimo a comprendere che era azzeccatissima. Nelle settimane successive ci siamo confrontati ripetutamente sull’arrangiamento e la produzione del brano, lo abbiamo un po’ rallentato, e sono state aggiunte delle chitarre che per Vasco erano essenziali. Insomma, ci abbiamo lavorato e, alla fine, sono arrivate grandi soddisfazioni. Lui sa benissimo come trovare le parole giuste per descrivere una personalità come la mia e quella delle donne che si riconoscono nel mio modo di vivere» spiega prima di immergersi nei ricordi di un’altra collaborazione che non si può dimenticare.
Con Pino Daniele: «Dopo aver inciso insieme Se mi vuoi, mi ha portato in tour sul palco insieme con lui. Pino mi ha introdotto al grande pubblico delle arene e mi ha insegnato a non aver paura della folla. Credeva nella mia voce e si è speso molto per darmi coraggio» racconta: «Era unico, scriveva le nuove canzoni in tour e me le faceva ascoltare in anteprima di pomeriggio durante le prove prima del concerto. Ogni giorno aggiungeva una parola, un giro di chitarra, un passaggio di pianoforte. Era molto rispettoso nei confronti della sua ispirazione: quando arrivava, si isolava completamente da tutto e da tutti e componeva».
C’è stato un solo palco, prima delle notti al Be Bop di Firenze: «Quello della chiesa, prima nel coro e poi come solista. Avevo otto anni e mi emozionava da morire il suono della mia voce nel microfono con il riverbero naturale dell’ambiente. Adoravo il fatto che dopo il canto non ci fosse l’applauso, ma il silenzio, un silenzio non indifferente ma carico di vibrazioni. Mi sentivo in pace con me stessa, appagata, come quando, dopo aver scalato, si arriva in vetta a una montagna».
