Shelley Duvall è morta. Aveva 75 anni. Abbiamo sempre pensato che chi era sopravvissuta alla furia di Jack Torrance in Shining fosse davvero immortale. Duvall rimarrà per sempre nel ricordo degli spettatori come Wendy in quel frammento di autentico terrore con la bocca aperta e gli occhi sgranati, appoggiata con una spalla ad un muro (e con in mano un coltellaccio che avevamo appena capito non fosse in grado di maneggiare) mentre l’ascia di Jack fende la porta di legno dietro la quale tenta disperatamente di ripararsi. Tredici mesi di set estenuanti per Shining (1980), con Stanley Kubrick che la faceva “piangere 12 ore al giorno”, tanto che un anno dopo, nonostante il successo del film, Duvall mandò a quel paese il regista statunitense: “Non mi sbatterò mai più così per recitare. Se vuoi entrare nel dolore e chiamarlo arte, fallo pure, ma non più con me”.
Per interpretare la moglie triste e lacrimante dello scrittore impazzito (Jack Nicholson), isolata con lui e il figlio piccolo all’Overlook Hotel, Duvall ogni mattina ascoltava brani che le provocavano il magone. Solo così poté entrare continuamente in quella parte, ripetuta decine di volte; come la celebre sequenza in cui si difende da Jack con la mazza da baseball sulle scale del salone dell’hotel, scena girata 127 volte.
E dire che la Duvall arrivò a Shining con già una Palma d’Oro come miglior attrice a Cannes sulla mensola del salotto. In Tre donne di Robert Altman (1977), Duvall interpreta Millie, una ragazza logorroica ed estroversa che condivide appartamento e un sentimento ben oltre l’amicizia con la collega di lavoro, in un centro benessere per anziani della California. Per questa interpretazione molto aperta, libera, oggi diremmo molto seventies, vince uno dei massimi allori per una carriera d’attrice. Carriera iniziata proprio grazie ad Altman poco meno di dieci anni prima, quando fu lo staff del grande regista statunitense a notarla durante dei provini quando la Duvall era ancora al college ad Houston, in Texas. Debuttò sul grande schermo nel 1970 interpretando una giovanissima guida turistica, piuttosto seduttrice in Brewster McCloud, film semisconosciuto di Altman; poi sempre con lui è una sposa per corrispondenza nel fangoso, angusto, macchinoso western altmaniano I compari (1971); in Gang nel 1974 sempre di Altman è l’amante del protagonista gangster Keith Carradine; è una groupie nel corale Nashville (1975) dove recita cambiandosi spesso d’abito e mostrando hot pants con zeppe altissime, mutandine e canottiere hippie; nel 1976 è la moglie del presidente Cleveland in Buffalo Bill e gli indiani; nel 1980 è Olivia nel Braccio di Ferro/Popeye con protagonista Robin Williams in piena crisi da tossicodipendenza.
In pratica, se si eccettua Shining e una particina in Io e Annie di Woody Allen, la Duvall lavora solo con Altman e si cuce addosso la propria carriera, accettando ruoli sempre differenti offerti dal regista, tanto da dichiarare quanto fosse fiera della sua fiducia, del suo rispetto per lei: “Non mi pone restrizioni, non mi intimidisce, lo adoro”. Pare che il primo consiglio che le diede Altman fu lapidario ed efficace: “Non prenderti mai sul serio”. Poi il regista la definì come un’attrice che era “in grado di far oscillare tutti i lati del pendolo: affascinante, sciocco, sofisticato, patetico, meravigliosa”.
La vita della Duvall però è stata piuttosto tormentata. Non tanto dal punto di vista sentimentale (un marito e due compagni: il primo il cantante Paul Simon e il secondo cantante anche lui, Dan Gilroy, che ha convissuto con lei dal 1989 fino al giorno della sua morte) e nemmeno da quello professionale, anche quando, abbandonò repentinamente la vita ad Hollywood dopo aver vissuto da produttrice di successo per tutti gli anni ottanta con una serie fantasy per ragazzi, Faerie Tale Theatre.
Le voci sulla Duvall sono sempre state quelle riguardanti possibili problemi mentali. Supposizioni esplose quando nel 2016 il celebre programma Dr.Phil la intervistò in modo abbastanza vile e sensazionalistico. La Duvall balbettò sciocchezze di ogni tipo (lo fanno tanti americani per rendersi simpatici e leggeri ndr), ma soprattutto si diede a fantasie paranoiche come ad esempio che Robin Williams, suo compagno in Popeye, in realtà era vivo e non si era suicidato nel 2014. Insomma, quell’intervista ne seppellì il ricordo già un po’ sbiadito. Eppure chi l’aveva conosciuta negli anni d’oro dei settanta, ottanta, raccontava che il carattere eccentrico della Duvall era un po’ così, venato di surrealismo e giocosità, come la Millie di Tre donne. In molti dello staff di Altman ricordano il suo provino, le sue gag riguardo all’essersi ritirata dalla facoltà di scienze dopo aver assistito alla vivisezione di una scimmia, a quando divenne commessa in un grande magazzino, fino al party per vendere alcuni suoi dipinti. Festa a cui parteciparono per caso alcuni membri della produzione del team di Mash di Altman. Lei cercò di vendergli dei quadri e loro le fecero un provino. “Pensavo fosse di un film porno”, ci rise su prima di diventare un pezzo di storia del cinema.
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