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L’Ocikana nel Friuli dei sapori, 12 racconti per raccontare il territorio

“Sentieri e cibi locali” è il titolo di un originale progetto editoriale composto da un volume di 12 racconti inediti (tra cui quello di Angelo Floramo, che qui presentiamo) a cura di dieci autori di origine regionale , realizzato nell’ambito del Programma di sviluppo rurale della Regione Fvg e attuato dai due Gruppi di azione locale, Gal Carso-Las Kras e Torre Natisone Gal per raccontare i rispettivi territori attraverso storie, racconti e una ricca documentazione fotografica sui paesaggi, le tradizioni e il cibo locali.

* * *

Pioggia sottile, fredda, che mi entra sotto i vestiti. Cammino sul selciato e a ogni passo la voce delle mie scarpe s’interroga sulla fatica di chi, in tempi immemorabili, ha portato fin quassù tutti questi sassi: per lastricare il sentiero che ora sto calpestando, per tirare su i muri delle case e delle stalle.

Non vi dirò il nome del borgo. Perché non fa la differenza. Potrebbe essere uno dei tanti nati dal ventre della Torre.

La Torre, sì, non ho sbagliato genere: perché è femmina, madre, come lo sono tutti i fiumi che leccano la terra, rotolano storie e fecondano le nostalgie degli umani.

Ha la sua anima, questo borgo slavo che si abbraccia attorno alla cappella consacrata a un santo che sta a guardia del cimitero. Attorno, appena fuori il perimetro delle abitazioni, le ombre del bosco già si allungano, portando aliti di legno e di resina che le dita della pioggia rendono ancora più intensi. Muschio e radici.

L’Autunno ha un odore selvatico, che lascia presagire il gelo che verrà ma conserva ancora la maturità dei frutti, l’abbondanza della raccolta. Dalle finestre già sbadiglia qualche luce. È la notte dei morti. L’invito a celebrarla assieme agli amici di qui è gradito quanto possono esserlo gli abbracci di coloro che ami. «Qui da noi i morti non si seppelliscono, ma si seminano» ricordavano i vecchi. Ed è proprio vero.

Fioriscono altrove, tornano ad essere vento, rugiada, germoglio. In questa valle la tradizione che li celebra, nell’ultima notte di ottobre, è ancestrale. Viene da lontano, si mescola e s’interseca con memorie remote, che cantano rituali di rinascita e di resurrezione, da qui fino alle gelide steppe siberiane.

Nel tempo della festa la morte danza con la vita e la comunità si raccoglie attorno al fuoco, per ricordare. Si racconta, si prega. Qualcuno ha già castrato le castagne e il fuoco già accarezza la padella bucata. Le donne si danno da fare attorno alla vecchia cucina. Il fuoco dei lari. Il focolare.

C’è chi butta sulle braci un ciocco che arda a lungo, perché le tenebre saranno dense fino alle prime luci del mattino. Nella caldaia di rame da più di un’ora gira la polenta. Mais e farro. Impossibile non pensare che erano proprio le focacce di farro quelle che venivano offerte alla Signora dei Morti, più di tremila anni fa.

L’oscura signora che abita il mondo inferno, dove arrivano le radici delle piante. La “dea proserpente”, la vergine rapita dal signore selvaggio e poi restituita alla luce del sole. È lei che raccoglie con la sua falce di luna le erbe magiche del ritorno.

Presiede a tutte le nascite, quelle degli umani e quelle degli animanti. Gira, la polenta attorno all’asse cosmica della bacchetta di legno. Non è una ricetta di cucina, questa, ma un rituale sciamanico che si sta officiando anche per me. Sono mestolate profonde, vigorose, costanti. A ogni giro la farina gialla si addensa sempre di più, mescolandosi a quella più scura.

I nodi si sciolgono piano, come i grani del rosario che nell’angolo la vecchia ha preso a recitare, biascicando lentamente il suo latino meticcio, contandoli sotto i polpastrelli delle dita, storte dalla fatica degli anni (dei secoli, forse!) tra un mistero glorioso e un resurrequiem. Ci sono luoghi in cui il tempo non passa.

Rallenta, quasi si ferma. Si fa più viscoso, in una sospensione trattenuta capace di far impigliare i prodigi. Tutti sanno che in una notte come questa i morti usciranno in processione dal piccolo cimitero. Percorreranno le vie di ciottoli del villaggio reggendo in mano una candela.

Ciascuno di loro farà ritorno alla sua antica dimora, dove un tempo consumò la vita nel lavoro e nelle speranze, tra felicità e dolori che non si possono raccontare, a incontrare ancora una volta i volti e gli occhi di chi ha amato.

O dei suoi discendenti, anche quelli che non ha mai conosciuto ma che conservano nello sguardo o nel sorriso qualcosa che appartiene a tutti coloro che li hanno preceduti. La tavola è ormai fiorita e la skljeda, l’ampio contenitore di coccio, è già al suo posto, messo proprio nel centro affinché ciascuno vi possa attingere allungando la mano. Come una patera rituale.

Una caldaia, un pentolone in cui si compiranno tutte le metamorfosi capaci di trasformare il “Caos” in “Cosmos”. Una per tutti. I pezzi del pulmentum vi verranno riversati, ancora caldissimi e fumanti. Pronti ad accogliere le scaglie di formaggio e di burro destinate a sciogliersi piano in un impasto saporoso. Che sa di fatica e di terra, di erba e di fieno, di fiori e di buono.

E quando il latte, munto da poco, vi verrà fatto colare sopra, produrrà quel suono inconfondibile, quel cikati sommesso che pare un crepitio di pioggia argentina. O il sussurro di un bacio non dato. Chi è nato in queste contrade sa bene che dell’ocikana basta solo pronunciare il nome per sentirla già sfrigolare sotto la lingua.

Ce n’è per tutti. Per i vivi e per i morti. La assapori con gli occhi socchiusi ed è già quasi essa stessa una preghiera. L’impasto si scioglie in bocca, e regala sapori e profumi che credevi dimenticati. Sono tutti già lì, pronti a esplodere come un’epifania. Poi qualcuno versa del vino.

Da un bottiglione senza etichetta. Viene dalla vigna che abbraccia il piolo, non troppo lontano da qui. Non ha pretese. Regala un che di acidulo, come l’erba appena recisa nel primo taglio di maggio. «Buona?» mi chiede la vecchia.

«Fa resuscitare i morti», le rispondo. E il vento bussa sui vetri. Come a chiedere di fare posto a chi sta per arrivare.

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