In Brasile soffia sempre più forte il vento della censura imposta dal Tribunale supremo federale (Stf) che dopo avere minacciato di arrestare giornalisti, fatto ritirare reportage esplosivi e intimidito opinionisti sgraditi all’establishment, a fine giugno ha deciso di mettere sotto contratto una società per monitorare chiunque discuta di temi giudiziari legati alla Corte suprema sui social. L’azienda che vincerà l’appalto, da fine luglio seguirà senza interruzione Facebook, Twitter, Youtube, Instagram, Flickr, TikTok e LinkedIn, elaborando rapporti che saranno consegnati ogni giorno agli 11 super-giudici brasiliani che compongono l’Stf. L’iniziativa arriva nel momento in cui la Corte suprema ha intensificato le azioni contro la diffusione di quelle che a suo dire sarebbero notizie false ma ora vuole sapere proprio tutto, identificando influencer, opinionisti e reporter che criticano la stessa Corte suprema, con un’analisi sulla loro capacità di influire sull’opinione pubblica. Preoccupa parecchio, scrive la rivista Veja online, che i dati raccolti potranno essere condivisi con la Polizia federale per fare inchieste su chiunque sia «sospettato di diffondere notizie false».
Un Grande Fratello giudiziario dunque, come ha confermato il 25 maggio scorso il giudice e (allora) presidente della Corte suprema del Brasile, Alexandre de Moraes, resosi protagonista di una grave intimidazione contro il presidente dell’Istituto brasiliano di Scienze criminali intitolato a Giovanni Falcone, il giudice in pensione Wálter Fanganiello Maierovitch, vincitore del prestigioso Premio Jabuti con il libro Mafia, potere e antimafia. Uno sguardo personale su una storia lunga e sanguinosa. Sempre preciso quando tratta questioni giuridiche e temi legati alle organizzazioni criminali transnazionali, per De Moraes la colpa di Maierovitch è stata di avere scritto su un portale internet molto seguito in Brasile, Uol, un articolo dal titolo «Follia, pettegolezzo e offesa etica nel Supremo tribunale elettorale contro la difesa di Bolsonaro».
Il giudice della Corte suprema brasiliana, che già nel 2022 si era «guadagnato» una pagina sul New York Times che lo descriveva come la «persona che decide cosa può essere detto online in Brasile», infastidito da quanto uscito ha risposto facendo pubblicare una piccata e minacciosa nota sul portale ufficiale dell’Stf. Nota in cui De Moraes ha accusato Uol di avere diffuso fake news, ribadendo che i fatti su cui si era basata l’analisi del giudice amico di Giovanni Falcone (lo aiutò durante la cattura di Tommaso Buscetta in Brasile negli anni Ottanta), erano stati inventati. Aggiungendo infine che anche la stampa fa disinformazione, e non solo i social media. Quasi un «pizzino», anche perché la notizia era vera e l’analisi di Maierovitch, al solito, impeccabile.
Bisogna partire da questi due episodi più recenti, per comprendere come in Brasile la censura sia diventata un problema molto serio, anche perché né Maierovitch né il New York Times possono essere accusati di essere mai stati pro Bolsonaro. A onor del vero, la censura in Brasile è iniziata nel 2019, il primo anno di presidenza proprio di Jair Bolsonaro, quando lo stesso De Moraes tolse dalla circolazione un reportage della rivista Crusoé. In quel numero (ne pubblichiamo la copertina qui a fianco) si rivelava che il suo collega alla Corte suprema, il giudice Dias Toffoli, aveva un nome in codice usato dalla multinazionale delle tangenti verde-oro Odebrecht: «L’amico dell’amico di mio padre», come confermato dallo stesso Ceo dell’azienda all’epoca, Marcelo Odebrecht, torchiato durante la Lava Jato («Autolavaggio»), che è stata la Mani pulite brasiliana. E chi era «l’amico dell’amico di mio padre»? Il papà di Marcelo è Emilio Odebrecht; il suo amico è l’attuale presidente Lula; l’amico dell’amico è per l’appunto il giudice Dias Toffoli (come dicevamo, collega del censore Alexandre de Moraes). Ricordiamo che Toffoli è anche il giudice che di recente ha cancellato ogni decisione e multa milionaria comminata dalla stessa Corte suprema nei confronti di chi ha collaborato con la giustizia (il caso non coinvolse solo la Odebrecht, che in seguito allo scandalo ha cambiato persino il nome, oggi è Novonor). Un colpo di spugna.
Solo che certe cose non si possono scrivere, e da allora è stato un crescendo rossiniano per la censura in Brasile. Basti pensare all’audio del leader del Primeiro comando da capital (Pcc), il maggiore gruppo criminale del Brasile. Marcos Willians Herbas Camacho, alias Marcola, era stato intercettato dalla polizia brasiliana mentre diceva a un altro detenuto prima delle elezioni del 2022 che «per noi Bolsonaro è peggio. Lula è un ladro ma non si possono paragonare l’uno con l’altro». Lo scoop rivelato dal sito O Antagonista resistette poche ore online alla furia censoria di De Moraes, che era anche il presidente del Supremo tribunale elettorale. Il motivo lo spiegò all’epoca il sito Jota: «Il giudice ha inteso che non c’erano prove di alcuna dichiarazione di voto di Marcola per il candidato Lula e, dunque, in “tale contesto si evidenzia chiaramente la divulgazione di un fatto noto per essere falso”». Meno di un mese fa lo stesso De Moraes, su richiesta degli avvocati del presidente della Camera dei deputati, Arthur Lira, ha ordinato la rimozione dei reportage del quotidiano Folha de São Paulo in cui Jullyene Lins, l’ex moglie di Lira, lo accusava di minacce e aggressioni. Solo dopo l’intervento del quotidiano Estado de São Paulo (che ha pubblicato un editoriale con questo incipit: «Stupisce la facilità con cui la Corte suprema sospende la libertà di parola, arrivando all’assurdo che anche i problemi coniugali di un deputato sono diventati un rischio per le istituzioni»), De Moraes ha ritirato la censura, ma la frequenza con cui questo giudice la sta normalizzando insieme alle minacce contro giornalisti/opinionisti critici, è sconcertante.
De Moraes ha infatti determinato anche la censura dei social network che criticano il disegno di legge sulle fake news voluto dal governo Lula, bloccando i profili di influencer, e persino incriminando il proprietario di X, Elon Musk, per avere attaccato le sue decisioni. Di certo c’è che, come scrive il portale Poder360, «le motivazioni, quando vengono rese pubbliche, sono sempre generiche e opache». Come il mantra che De Moraes inserisce in ogni sua azione censoria: «La libertà di parola non è libertà di aggressione! La libertà di espressione non è libertà di distruzione della democrazia e delle istituzioni! La libertà di espressione non è libertà di diffusione di discorsi bugiardi, aggressivi, odiosi e prevenuti!». Un programma più politico che degno di una sentenza, punti esclamativi compresi.