Ribordone
Un giovane regista canavesano che vuole proporre al pubblico la sua visione del mondo e raccontare storie di persone che vale la pena raccontare: questo è l’obiettivo di Loris Di Giovanni, classe 1997, originario di Ribordone e ora trapiantato a Milano. I suoi documentari sono un’immersione nella vita delle persone, dove Di Giovanni coglie la realtà delle cose vivendo dall’interno le situazioni da proporre sullo schermo. Il suo sogno è quello di arrivare ad un lungometraggio di ampia produzione.
Come si è formato nell’ambito cinematografico?
«Ho frequentato il liceo artistico a Torino per poi specializzarmi alla Nuova accademia di Belle Arti a Milano, la Naba. Mi occupo di documentaristica: la mia tesi di laurea è stato anche il mio primo documentario: “‘L Prascondù”, il prato nascosto. Ho vissuto con la famiglia Riva, di Sparone, in alpeggio. Attualmente, oltre a fare il cameraman ho sviluppato un secondo cortometraggio, “In su la vetta”. Ho partecipato, proponendo questo corto, al Torino Film Festival dell’anno scorso, la 41ª edizione. Ho in progetto lo sviluppo di altri documentari, sempre legati al tema della montagna».
Come è diventata una passione?
«Grazie al cinema d’autore, che guardavo sin da piccolo. Dopo aver frequentato la scuola, questo si è trasformato in una vera passione. Una figura che ammiro molto è quella di un ottimo regista che ho avuto il piacere di conoscere personalmente e che ha vinto al festival di Cannes, Roberto Minervini. Quando l’ho incontrato a Milano gli ho fatto un po’ di domande sulla sua vita e sulla ricerca che porta avanti, cioè documentari su gruppi di persone che vivono in situazioni disagiate. Ho apprezzato molto un suo documentario sui tossicodipendenti della Louisiana, mi è piaciuto molto il suo approccio con la videocamera, il fatto di andare sul posto da solo per vivere con i soggetti documentati la loro esperienza di vita. Questo approccio permette allo spettatore, dal punto di vista narrativo, di essere immerso in ciò che va a vedere. Anche io cerco di vivere queste situazioni. Mi sono messo a pascolare, a fare esperienze di vita che trascendono il cinema fatto della sceneggiatura scritta e di scalette da seguire, mi piace andare quasi all’azzardo nel cogliere l’attimo».
Cosa vuole trasmettere tramite il cinema?
«Trasporre la mia visione del reale sotto forma di cinema. Mi diletto anche di filosofia, mi piace molto proporre la similitudine della mia visione del cinema come quello che viene definito “far sciogliere il velo di Maya” e svelare il mistero che sta dietro alla realtà delle cose, cerco di carpire quello che la videocamera può cogliere e trasporlo sotto altra forma».
Qual è il criterio che adopera nella scelta dei suoi soggetti?
«Non cerco soggetti specifici ma realtà sociali di vario genere, tra gruppi underground di scene rap e hardcore e soggetti al limite dell’irreale. I miei soggetti capitano, semplicemente, oppure scopro l’esistenza di un personaggio che risulta al mio occhio interessante e lo studio. Lo immagino sviluppato sotto forma di film e se mi colpisce particolarmente lo scelgo».
Quale punto di vista adotta nei suoi documentari?
«Il mio punto di vista è quello della videocamera, che poi si trasmuta in quello che vedrà lo spettatore: il mio scopo è portare la visione delle immagini che passano attraverso la videocamera, il mio occhio, me, e infine lo schermo. Lo spettatore vive quello che ho vissuto io in prima persona, sono consapevole che la regia che adopero può piacere e non piacere. Attraverso il filtro della videocamera racconto ciò che vedo».
C’è un film da cui è stato particolarmente colpito?
«Grizzly Man: un documentario che parla di un ragazzo, Timothy Treadwell, che si è filmato mentre cercava di proteggere gli orsi dello Yellowstone dai cacciatori. Ha proseguito nel racconto per poi essere stato sbranato vivo. Il regista, il tedesco Werner Herzog, ha recuperato il materiale e ne ha fatto un film. Si tratta di un’esperienza sul campo estrema, un’estremizzazione di ciò che voglio proporre anche io». Beatrice Diamante