Rischia di aggravarsi ulteriormente la posizione del 38enne Andrea Favero, finito in carcere per l’omicidio volontario dell’ex compagna Giada Zanola la 33enne di origine bresciana gettata giù dal cavalcavia sull’A4 di Vigonza la notte del 29 maggio scorso. Nel corpo di Giada Zanola erano state individuate benzodiazepine.
E almeno due confezioni di benzodiazepine sono state trovate nell’abitazione che la donna condivideva con l’ex, oltreché nella macchina Ford C Max in uso alla coppia anche se era proprietà di lei. Confezioni acquistate in farmacia da Favero sulla base di una ricetta che gli era stata prescritta dal medico.
Domanda: come mai tracce di quei medicinali sono stati trovati nell’organismo di Giada mentre non risultano prescrizioni mediche per lei di benzodiazepine, il principio attivo di quei farmaci appartenenti alla categoria dei sedativi-ansiolitici che hanno vari nomi commerciali, il più noto dei quali è il Valium?
A chiarire questo aspetto saranno gli esami del sangue disposti su Favero: le benzodiazepine possono restare in circolo, o comunque lasciare tracce, per diverso tempo in un corpo. Se l’esito risulterà negativo, Favero dovrà spiegare perché si è fatto ordinare dal medico di base quel sedativo e non lo ha mai usato. E dovrebbe spiegare perché lo stesso tranquillante, invece, è stato assunto dalla convivente che voleva chiudere la relazione con lui (o le è stato somministrato, secondo l’ipotesi della procura) tanto nei giorni precedenti alla tragedia quanto (forse) la notte stessa del delitto avvenuto intorno alle 3.30 del 29 maggio scorso.
Alcuni giorni prima della sua morte, Giada manifestava stanchezza, sonnolenza e a volte appariva come intontita: lo fanno riferito agli investigatori della Squadra mobile che sta svolgendo l’indagine – coordinata dal pubblico ministero padovano Giorgio Falcone – parenti, amici e il nuovo fidanzato della 33enne.
Del resto lei stessa aveva confidato, sempre al nuovo compagno e anche a un’amica, il timore che Andrea Favero le somministrasse qualche sostanza oppure della droga.
A quest’ultima, in particolare, aveva inviato un messaggio via whatsapp esprimendo quella preoccupazione. I tanti tasselli del puzzle che cercano di ricostruire l’assassinio di Giada Zanola – sostengono fonti investigative – cominciano a ricomporsi.
E rischia anche di essere contestata all’uomo un’altra aggravante, oltre a quella della relazione di convivenza con la vittima, quella della premeditazione benché nel provvedimento di fermo firmato dal pm all’indomani del delitto si faccia riferimento a un omicidio «accompagnato da un dolo che, allo stato degli atti, può qualificarsi come dolo d'impeto». «Allo stato degli atti» scriveva allora il pm. Oggi tante caselle si sono riempite e oggi tanti sono gli elementi indiziari raccolti.
Del resto Andrea Favero aveva mentito subito tentando di attuare un depistaggio fin dal mattino del 29 maggio quando il corpo straziato di Giada era stato recuperato dopo la segnalazione di alcuni automobilisti.
Sul cellulare della 33enne era arrivato un sms di Andrea: ««Sei andata al lavoro?? Non ci hai nemmeno salutato!», per far pensare che la donna si fosse alzata presto. All’inizio sembrava un suicidio.
Poi i dubbi si sono moltiplicati.
Alcune ore più tardi, di fronte alla polizia, Andrea Favero confessa di avere spinto Giada nel vuoto («L’ho afferrata alle ginocchia e spinta giù dal cavalcavia», ma la dichiarazione è inutilizzabile perché fornita senza l’assistenza di un difensore) e poi (con il difensore) poi farà una parziale ammissione spiegando di essere stato con lei sopra il cavalcavia e di avere un vuoto di memoria («Non ricordo che sia caduta dal parapetto...»).
A incastrarlo, i filmati della telecamera di un privato che ha filmato la Ford C Max percorrere il cavalcavia, fare retromarcia, risalirlo, fermarsi due minuti sulla sua sommità, poi scendere e rientrare nell’abitazione della coppia in via Prati 8.