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Ilva e gli altri, come fare soldi con la CO2: oggi nell’Unione europea inquinare conviene

Ilva e gli altri, come fare soldi con la CO2: oggi nell’Unione europea inquinare conviene

Ripubblichiamo l’articolo sugli affari legati al sistema europeo delle quote di Co2 uscito nel 2019 sul numero 52 di Fq Millennium. Inquinare conviene. I grandi gruppi dell’acciaio, del cemento, della chimica e della raffinazione di petrolio per anni hanno fatto profitti grazie al sistema messo in campo nel 2005 dall’Unione europea per ridurre le emissioni […]

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Ripubblichiamo l’articolo sugli affari legati al sistema europeo delle quote di Co2 uscito nel 2019 sul numero 52 di Fq Millennium.

Inquinare conviene. I grandi gruppi dell’acciaio, del cemento, della chimica e della raffinazione di petrolio per anni hanno fatto profitti grazie al sistema messo in campo nel 2005 dall’Unione europea per ridurre le emissioni di gas a effetto serra. E ancora oggi continuano a ricevere permessi gratuiti a rilasciare CO2 in atmosfera. Quelli che non utilizzano li rivendono, guadagnandoci, oppure ne approfittano per aumentare il prezzo del prodotto finale. È il caso dell’Ilva, che da almeno un decennio si vede assegnare molte più “quote” rispetto al fabbisogno e tra 2008 e 2015 ha ricavato con questo meccanismo più di 470 milioni di euro. I “profitti eccezionali imprevisti” sono un segreto di Pulcinella ben noto alle istituzioni Ue. Tanto da essere esplicitamente citati nella direttiva del marzo 2018 con cui, dopo lunghe trattative, lo schema è stato riformato. Ma la generosità di Bruxelles nell’autorizzare le aziende a inquinare senza affrontarne i costi ha pesato sulle tasche dei consumatori e ridotto i benefici per l’ambiente. Come in Italia, dove gli introiti derivanti dal “mercato del carbonio” sono stati destinati solo in parte al finanziamento di misure green. E secondo gli addetti ai lavori le nuove regole che entreranno in vigore dal 2021 sono un compromesso insufficiente per sanare quel peccato originale.

Battezzato Eu Ets (Emissions trading system), il sistema europeo che mira a limitare le emissioni nocive si basa su due strumenti: un tetto alla quantità totale di Co2 che può essere diffusa in atmosfera fissato da Bruxelles (ogni anno più basso) e un mercato virtuale in cui le aziende vendono e comprano i permessi a inquinare. Il loro prezzo dovrebbe indurre i gruppi industriali a investire in tecnologie più efficienti o riconvertire la propria produzione. E assicurare agli Stati membri, che periodicamente mettono all’asta nuovi permessi, risorse con cui finanziare interventi per il clima. Quando il meccanismo è partito, le istituzioni comunitarie temevano però che i costi avrebbero finito per rendere le aziende del Vecchio continente meno competitive inducendole a delocalizzare. Per evitare questo rischio, definito in gergo “carbon leakage”, la Ue è caduta nel peccato originale: all’inizio quasi tutti i permessi sono stati assegnati gratuitamente. Con l’inizio della grande recessione del 2008 i livelli produttivi dell’industria manifatturiera europea sono precipitati, ma il meccanismo di assegnazione dei diritti a inquinare non è stato adeguato. Così ogni impianto ha continuato a ricevere un numero di quote tarato sulla produzione – e dunque sulle emissioni – pre crisi. Sul mercato c’era quindi un eccesso di quote e le aziende di tutta Europa, alle prese con ricavi in picchiata, hanno iniziato a sfruttare questa falla del sistema per realizzare “profitti imprevisti”.

I tedeschi fanno bingo
A quantificarli ci ha pensato la società di ricerca e consulenza belga Ce Delft, che ha realizzato diversi studi anche per la Commissione europea: stando ai suoi calcoli, tra 2008 e 2015 l’industria europea ha messo a segno ben 25 miliardi di incassi aggiuntivi. Al primo posto i gruppi tedeschi con 4,7 miliardi, seguiti da quelli inglesi (3,1 miliardi), spagnoli (2,9), francesi (2,8) e italiani (2,4). Come si arriva a queste cifre? Poniamo che un’azienda riceva gratis 500 quote, pari a 500 tonnellate di CO2, ma nell’arco di 12 mesi produca poco ed emetta solo 300 tonnellate di gas serra. A questo punto ha tre diversi modi per fare soldi. Il più semplice è vendere le 200 quote in eccesso ad altri gruppi. Il secondo prevede l’utilizzo di crediti “acquisiti” attraverso blandi e poco costosi progetti di riduzione delle emissioni in Paesi in via di sviluppo al posto dei normali permessi a inquinare disciplinati dal sistema Ets (scappatoia in vigore fino al 2012): l’impresa mette poi sul mercato gli Ets che risparmia. La terza strada consiste nell’aumentare il prezzo dei prodotti finali a danno dei cittadini. «In pratica abbiamo calcolato la percentuale del valore di ogni quota che è stata trasferita sul prezzo dei prodotti per il consumatore», chiarisce Sander de Bruyn, coautore del report di Ce Delft. Per esempio gli automobilisti hanno pagato di tasca loro, in media, il 70% del valore di ogni tonnellata di Co2 emessa dalle raffinerie. Quest’ultimo meccanismo è il più redditizio: i ricercatori belgi hanno quantificato solo per le aziende italiane almeno 1,8 miliardi di profitti extra. Segue la vendita di quote in eccesso (504 milioni), mentre l’uso di crediti guadagnati fuori dai confini Ue ha fruttato solo 60 milioni.

Viste le premesse, non colpisce che nel nostro Paese in cima alla lista dei gruppi beneficiari di ricavi aggiuntivi ci siano Ilva, Italcementi, Buzzi e Versalis (gruppo Eni). Per effetto dell’Ets il siderurgico tarantino, negli anni a cavallo tra la gestione della famiglia Riva e il commissariamento, ha incassato complessivamente secondo Ce Delft 476 milioni di euro, di cui ben 420 aumentando i prezzi dei suoi prodotti con il meccanismo descritto sopra. Del resto la recessione prima e il sequestro degli impianti poi hanno ridotto notevolmente i livelli produttivi dello stabilimento, che però – come emerge dal registro emissioni della Commissione europea – ha continuato a ricevere gratuitamente quote di Co2 molto superiori al fabbisogno. Italcementi e Buzzi (oggi Buzzi Unicem) hanno invece macinato ricavi, rispettivamente 132 e 116 milioni, soprattutto grazie alla vendita sul mercato delle quote eccedenti negli anni in cui la produzione era al lumicino a causa della crisi dell’edilizia. Mentre Versalis, la società della chimica di Eni, negli otto anni considerati ha incassato un totale di 153 milioni, di cui 92 dalla vendita dei diritti di emissione. Uscendo dai confini italiani, l’angloindiana ArcelorMittal tra 2009 e 2014 in base ai suoi stessi rendiconti annuali ha realizzato guadagni per oltre 540 milioni di euro. Pur continuando a lamentare che – parola del numero uno Lakshmi Mittal – «la politica energetica e climatica dell’Ue sta punendo il settore dell’acciaio e altre industrie ad alto consumo di energia, con un pesante impatto sulla nostra competitività». I conti, però, non sembrano risentirne affatto. Anzi. Basti dire che l’ultimo bilancio quantifica in 201 milioni di dollari il valore dei permessi “incamerati” grazie all’acquisizione dell’Ilva, avvenuta nel 2018. «Questi profitti inattesi in realtà erano stati previsti dall’Ue», ricorda Carlo Carraro, ex rettore di Ca’ Foscari di Venezia dove insegna Economia ambientale e presidente della European Association of Environmental and Resource Economists. «Sono serviti per aumentare il consenso all’introduzione del sistema, che altrimenti avrebbe visto la forte opposizione dei Paesi dell’est Europa».

Le agevolazioni ai grandi inquinatori, però, non si sono affatto esaurite dopo la fase introduttiva. Nel periodo di scambio attuale, iniziato nel 2012 e ancora in corso, la regola generale prevede che il 57% delle quote vada pagato e il 43% rimanga sotto la voce “free allocation”. Ma, paradossalmente, alcune tra le industrie più dannose per l’ambiente continuano a godere di un trattamento di favore. I comparti “miracolati” appartengono a settori come la produzione di acciaio e cemento, l’automotive, la costruzione di navi e aerei, l’estrazione di idrocarburi e minerali per l’industria chimica, la fabbricazione di plastica e gomma, il tessile. Fino all’elettronica e alla meccanica. E molti saranno privilegiati anche dal 2021 in poi, quando in generale scatteranno paletti più rigidi. Bruxelles ha stabilito che per loro inquinare è gratis: dovranno ricevere dagli Stati tutte le quote di cui hanno bisogno, a costo zero.

Sinistra e verdi isolati

Che cosa sia successo nei mesi in cui all’Europarlamento si lavorava per modificare il sistema lo racconta Kaisa Amaral dell’ong belga Carbon Market Watch. «I grandi inquinatori hanno fatto un intenso lobbying per ottenere più permessi gratuiti possibile. La federazione del cemento Cembureau ha compattato altri settori industriali intorno alla sua causa». E alla fine la richiesta è stata accolta. «Ci siamo opposti soltanto noi, i verdi e la Sinistra unitaria europea», ricorda Eleonora Evi, eletta nel 2014 a Strasburgo tra le file del Movimento 5 stelle e riconfermata anche alla scorsa tornata elettorale. «Molti colleghi socialisti, soprattutto tedeschi, hanno cambiato idea di fronte alle proteste dei lavoratori, preoccupati dall’ipotesi di delocalizzazione». Anche se, fa notare Amaral, «per il cemento questo rischio non esiste», visti i costi di trasporto da sostenere in caso di spostamento della produzione fuori dall’Ue.

Su altri punti, aggiunge Evi, «le ambizioni degli europarlamentari sono state ridimensionate durante le trattative con Commissione e Consiglio. Eppure che l’Ets fosse inefficace era noto: lo dimostrano le pezze introdotte in fretta e furia ancora prima dell’entrata in vigore della fase quattro». Per correggere alcune storture del sistema, infatti, è stata rinviata la vendita di 900 milioni di quote eccedenti e si è deciso di creare una riserva stabilizzatrice che incamera in modo automatico i diritti a inquinare non assegnati e li reimmette sul mercato solo quando la domanda torna a superare l’offerta.

Il risultato è che i prezzi delle quote di emissione sono schizzati da meno di 6 a circa 23 euro per tonnellata di Co2 nel giro di 24 mesi, gonfiando i ricavi derivanti dalle aste. Lo scorso anno i Paesi aderenti al sistema hanno registrato 14,1 miliardi di incassi contro i 5,5 miliardi del 2017. I proventi dell’Italia «hanno raggiunto la cifra record di 1,4 miliardi di euro, quasi tre volte la media annuale registrata nel triennio precedente», fa sapere il ministero dell’Ambiente. Solo il 50% di quei soldi, però, è vincolato alla realizzazione di interventi di adattamento ai cambiamenti climatici. Fino a oggi le risorse sono state disperse in mille rivoli. Dall’efficientamento degli edifici pubblici al sostegno a Fao e Programma di sviluppo dell’Onu, fino ai contributi alle piccole isole del Pacifico e alla Comunità caraibica per prevenire i disastri naturali da riscaldamento globale.

Ma spulciando i rendiconti ufficiali degli ultimi anni si scoprono voci ancora più curiose. Come gli «interventi di efficientamento energetico dell’illuminazione di edifici di culto dei Comuni interessati dai percorsi giubilari», per cui sono stati stanziati 3,2 milioni a valere sui proventi del 2015. L’altra metà dei guadagni dalle aste rimane invece a disposizione dei governi. Nel 2011, con lo spread alle stelle, il governo di Mario Monti ha stabilito di destinarli al Fondo ammortamento titoli di Stato, vale a dire alla riduzione del debito pubblico. Germania, Regno Unito, Spagna e Francia, invece, pur non essendo obbligati utilizzano anche questa parte per le politiche verdi.
Nonostante questo, secondo il mastodontico rapporto annuale dell’Agenzia europea dell’ambiente, a partire dal 2013 l’inquinamento delle fabbriche del continente ha ricominciato ad aumentare. «Tra 2012 e 2018, mentre le emissioni dei grandi produttori di energia calavano del 22%, quelle dell’industria sono rimaste piatte», specifica il direttore scientifico del Kyoto Club Gianni Silvestrini. Secondo Simone Borghesi, ordinario di Politica economica all’Università di Siena, «con l’impennata dei prezzi delle quote degli ultimi anni la speranza è che le imprese siano più incentivate a cambiare le proprie tecnologie».

I dolori di von der leyen
Ma non tutti sono così ottimisti. De Bruyn avverte che il boom del mercato tende di per sé a «far salire i proventi di chi, avendo ricevuto più quote del necessario, le rivende». Non si può escludere, quindi, che l’industria inquinante stia continuando a macinare ricavi nonostante sulla carta le emissioni siano diventate più costose. Un controsenso che cozza con le ambizioni della neopresidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, secondo cui l’attuale obiettivo di ridurre le emissioni del 40% entro il 2030 non è sufficiente e occorre alzare l’asticella fino al 50-55%.
Resta il fatto che tra 2008 e 2015, per effetto di regole che loro stessi si sono dati, i governi europei hanno rinunciato, secondo una stima della federazione di ong Climate Action network Europe, a 143 miliardi di introiti che avrebbero potuto impiegare per favorire la decarbonizzazione. E in futuro non andrà meglio: secondo la stessa Commissione, nel periodo 2021-2030 saranno distribuite all’industria «più di 6 miliardi di assegnazioni gratuite». Per un valore, alle quotazioni attuali, di 128 miliardi di euro. Risorse preziose per finanziare il Green New Deal annunciato dalla von der Leyen. Il peccato originale del mercato del carbonio, dunque, pesa sulla possibilità di tradurre in pratica i propositi del nuovo esecutivo europeo. A meno che la pressione di un movimento globale che chiede azioni incisive per salvare il pianeta non costringa gli Stati a cambiare le regole. Stavolta in modo radicale e senza sconti.

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