«Chi c’ha mamma nun trema» recita un antico proverbio romano, ma oggi sono le madri a tremare. Ansiose, costantemente impaurite di sbagliare, di non essere all’altezza, oberate dai sensi di colpa e dalla sempre più chiara consapevolezza che la maternità costa molto e restituisce poco. Eppure mai come ora è celebrata da libri, film, cifra dell’onnipotenza femminile, lo «strano potere del parto», come lo definiva Virginia Woolf. Non è facile capire come l’icona della mamma anni Cinquanta, in grembiule e torta nel forno, la «statua davanti all’eterno» di Giuseppe Ungaretti sia la fotografia sbiadita di una donna che intrecciava maternità e sacrificio in una simbiosi obbligata. Siamo nel tempo delle primipare a 63 anni con la fecondazione in vitro a Kiev, malgrado la guerra, perché in Ucraina non esistono limiti d’età. Il parto della puerpera più vecchia d’Italia è avvenuto settimane fa a Lido di Camaiore. E se una volta finiva sulla copertina di un settimanale per famiglie, oggi passa nell’indifferenza generale, mentre Naomi Campbell pontifica sulle gioie dell’essere mamma. Lei che di figli ne ha avuti due con la maternità surrogata. Non è facile districarsi tra uteri in affitto, donazione di sperma, co-genitorialità platonica, ultima tendenza inglese, ossia si sceglie un partner da un sito per una notte di sesso e procreazione. Senza coinvolgimento, né romanticismo.
La storia delle madri ci appartiene: siamo tutti figli di una madre. Ma la sorridente signora Cunningham di Happy Days non esiste più. Nemmeno Mamma Roma e Bellissima, capolavori di Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti (registi che con la genitrice ebbero rapporti intensi) dove l’immensa Magnani esplorava le viscere di donne disposte a tutto per figli disgraziati e figlie senza talento, amati in modo dissennato. Capiamoci, l’amore resta immutato nei secoli, anzi l’attaccamento è ancora più forte, forse perché l’oggetto di ogni attenzione è spesso un figlio unico. Quello che è cambiato è il senso di rivalsa, che si porta dietro una fatica immane. Siamo uno dei Paesi europei con la più alta età media al parto, (32,5 anni) e con 8,9 per cento di primi nati da ultra-40enni. Questa nuova maternità mostra esseri non più perfetti, ma fragili creature a tratti anche crudeli, come nell’ultimo libro di Antonio Franchini o nel film Mothers’ Instict, raffinato ritratto dell’America di 70 anni fa, dove Anne Hathaway è una genitrice psicotica, insoddisfatta e assassina. La realtà è Alessia Pifferi, più che novella Medea, instabile donna-bambina che a chi l’accusava dell’atroce morte della figlia, replicava: «Non mi sgridi».
La crisi della madre è dolorosa, cresciuta silenziosa nel tempo e peggiorata dopo la pandemia, una corona di spine che si porta ogni giorno. La natalità è ai minimi storici, e coinvolge anche le straniere, nel 2023 le nascite sono ferme sotto le 400 mila (meno 3,6 per cento rispetto al 2022). La cura dei figli, come scrisse Adrienne Rich, nel celebre libro sulla maternità, Nato di donna (1976), è «responsabilità senza potere». «Un tempo si facevano i figli, subendo una forte pressione sociale. Non è più così» osserva Sasha Damiani, anestesista e creatrice del progetto social Mamme a nudo: «Fino a 35 anni le carriere sono precarie, ma le donne hanno fatto grandi investimenti, tanto da desiderare di vedere i frutti di anni di studio e gavetta. Si fanno i salti mortali. Il sentimento prevalente, oltre alla fatica, è il risentimento nei confronti del partner». In parallelo è cresciuta l’idea che debbano essere supereroine. Continua: «L’allattamento è imposto, sono sparite le nursery, in Toscana non esistono più. Il neonato si tiene in camera, anche dopo un cesareo quando stai uno schifo. L’ho raccontato a mia madre, mi ha risposto che il nido doveva esserci per forza, ero io che non lo avevo trovato. Non ci credeva», conclude la podcaster.
Spingono l’altalena con una mano e con l’altra mandano mail di lavoro. «Vedo la sistematicità della crisi, che ormai ha radici strutturali» osserva Francesca Bubba, attivista seguitissima. «Nel mondo del lavoro hanno inventato il termine maternal wall, il muro della maternità. Così quando Ambra Angiolini racconta come la maternità non le abbia creato alcun problema sul lavoro, sorrido, ma nelle madri “normali” questo genera un profondo senso di inadeguatezza». Le madri vogliono assomigliare alle figlie, come Heidi e Leni Klum fotografate insieme pure in lingerie. Le più giovani sono ossessionate dalla dieta a tal punto che oltre a farsi le punture sulla pancia, con il celebre farmaco per il diabete, mettono a dieta la pupa fin all’asilo. Racconta una nonna che la figlia quando le lascia la nipotina, le impone anche l’apporto calorico. A tre anni guai se le compra un gelato. Continua Bubba: «A testimoniare questo bisogno di onnipotenza c’è un nuovo fenomeno dilagante: il parto in casa, come nell’Ottocento. Assistite solo dall’ostetrica (costo dai tre ai cinquemila euro). Che spesso termina con una disperata corsa all’ospedale più vicino». È la nuova mistica del materno, che deve coprire il maledetto senso di colpa: «Restiamo vittime della madre di carta, icona perfetta, noi fatte di carne, fallimenti, difficoltà», conclude la scrittrice. Così scelgono di non avere figli o ne hanno meno di quanti ne vorrebbero: il numero medio è di 1,20. Non è vero come un tempo che dove si mangia in tre, si mangia in quattro: tra pagare un centro estivo o due, le cose cambiano.
Il primo indice della crisi della maternità è la non maternità, spiega la psicoterapeuta Elena Rosci: «La maternità miniaturizzata o la non maternità dimostrano che l’esperienza in grande stile non è compatibile con l’odierno profilo psicologico delle donne. Le poche che si avventurano nella famiglia numerosa hanno problemi consistenti. Certo non tutte. Ci sono profili, ormai residuali, in via d’estinzione, che si adattano ancora a questo stile di vita». La mamma «affezionata a quella gonna un po’ lunga» è una figura sbiadita, rimpiazzata dalla «mamma acrobata», come il titolo del saggio della psicologa (Mamme acrobate, Rizzoli), più che infelice, alla ricerca di equilibri incerti, instabili, da ricreare. Donna Franca Ciampi, in modo spiritoso diceva che lei si occupava degli «Affari interni». Gli «Affari esteri» erano di competenza del marito. Donne risolte, solide, monolitiche. Quelle di oggi mettono la maternità al primo posto, ma in modo ondivago, critico, difficile. È diventata pure un meme sui social, un tempo sarebbe stato impensabile. C’è la milanese ricca che chiama il figlio OrsoPietro, quella anni Novanta che urla di non fare il bagno prima di tre ore, uomini imparruccati che imitano compagne perennemente esaurite che sbattono stoviglie e ingozzano i pargoli (le storie di Sooshi Mango sono divertenti).
La demografa Alessandra Minello, curatrice dell’ultimo rapporto di Save the Children, Le Equilibriste-la maternità in Italia 2024 spiega che è emerso un dato inaspettato: «La percentuale di laureate nel mercato del lavoro, nella fascia d’età 18/55, è più alta tra le mamme. È la prima volta e mostra bisogni economici diversi, perché oggi la genitorialità è diventata sempre più difficile». In Italia un figlio costa un terzo del reddito di un nucleo familiare, mentre la media negli altri Paesi Ue è del 16 per cento. Continua la demografa, che ha scritto un saggio emblematico: Non è un Paese per madri (Laterza, 2022): «Ormai è difficile aderire a quello che era il mito. Stanno emergendo le nuove maternità, che prendono direzioni diverse nel quotidiano e mettono insieme la complessità dell’identità femminile». Identità, che davanti alla fine della scuola si compatta in un sol grido: «Odio l’estate». I prossimi tre lunghissimi mesi sono un pozzo nero dove venire risucchiate, una parete da scalare a mani nude e in solitaria. Confessano Francesca Fiore e Sara Malnerich, creatrici del celebre blog Mammadimerda, scrittrici, attiviste, attrici: «Siamo esaurite dopo il tour de force di saggi, regali alle maestre, pizzate e saluti neanche partissero per il fronte e abbiamo davanti la prospettiva di svenarsi per tenerli occupati». Corsi di tennis (obbligatori, ormai), inutili soggiorni all’estero, volontariato social in Perù o Costarica (ci sono madri che hanno comprato quel biglietto aereo in preda alla disperazione e forse anche a due gin tonic in corpo). Ma lasciarli dai nonni? «Beati chi ce li ha i nonni» continuano le blogger, «ormai lavorano fino a 70 anni, sono stanchi e poi non sono un presidio di welfare. E soprattutto non vengono distribuiti in modo equanime. Se lo Stato desse a tutte un nonno in alternativa agli asili nidi gratuiti, ringrazieremmo».
Le donne corrono, vivono perennemente in apnea, sono stravolte. Sono tutto e sono niente. I figli diventano il sogno perduto di una generazione che non è riuscita a realizzarsi come voleva. Quando dopo anni di lotta avranno vent’anni, allora arriva il banco di prova. E sentirete questi discorsi. «Mio figlio dopo un Master ad Accra (prestigiosissimo, in Ghana, a chi fosse sfuggito) lo hanno voluto in banca a Londra». A questo punto tocca rispondere alla tapina (Madame Bovary c’est moi) investita da tale gloriosa ascesa: «Il mio è rimasto a Roma, fa Sociologia alla Sapienza». Tremolio di disgusto, se solo il botox glielo permettesse, alzerebbe il sopracciglio come Vivien Leigh in Via col vento. La vedrete vacillare, boccheggiare come un pesce buttato sulla spiaggia. La Sapienza più Sociologia, uguale il nulla cosmico. Come nella Corazzata Potëmkin, l’occhio della madre inadeguata si allarga sul suo patetico fallimento mentre l’altra si allontana vittoriosa al grido: «Salutamelo tanto».
Figli trofei, che coprono le nostre ferite come scatole di cerotti. La scrittrice Federica De Paolis osserva: «Oggi c’è un’attenzione maniacale sui bambini, sono trattati come batuffoli di cotone, continuamente attenzionati. E questo richiede un enorme lavoro da parte nostra. Ci siamo evolute, lavoriamo. L’eterna giovinezza ci pressa. E allora, il filler, il contro filler, i tatuaggi, le unghie finte, il semipermanente, le tette rifatte e poi la menopausa, gli ovetti, i sieri. Alla sera per reggere il passo ci va almeno mezz’ora di creme. Le nostre madri avevano lo smalto e un po’ di rossetto. Domina l’ansia da prestazione. Anche io sono su questa giostra con i miei due ragazzi, non riesco a scendere. E la noia non è contemplata». La scrittrice romana ricorda l’infanzia in solitudine: «Passavo ore a fare le trecce alle bambole. Noi gli stiamo sempre addosso». Spiega la sociologa Sveva Magaraggia: «La prima a parlare di intensive mothering, genitorialità intensiva, fu la studiosa americana Sharon Hays. Sentiamo di avere una responsabilità totale del benessere dei figli. Tutte le tensioni, le aspettative della post modernità si concentrano sull’essere genitori. Ma le famiglie sono sempre più sottili e questo porta a un confronto continuo, estenuante. Siamo sommersi da manuali di auto aiuto. Solo per addormentarli ci sono decine di metodi diversi e ciò crea un’insicurezza enorme».
Le nostre madri con un urlo (e in casi estremi uno zoccolo tirato con precisione olimpionica) ci allineavano i chakra. Noi pensiamo di non saperne mai abbastanza. Le più giovani con le carrozzine super accessoriate paiono leggere come carta velina, alle spalle i genitori a parare i colpi. Anche Chiara Ferragni nel momento della crisi più nera è ricorsa all’aiuto morale e finanziario della mamma, Marina Di Guardo. Eppure secondo la scrittrice Antonella Lattanzi, che sulla maternità molto ha scritto, un tempo le cose non erano come ci hanno fatto credere: «Mio padre raccontava che nonna Angela era felice di fare l’angelo (nomen omen) del focolare. Si occupava dei sei figli, del marito e delle cognate. Negli anni abbiamo scoperto che era una donna in catene, costretta a fare quella vita senza lamentarsi. Oggi le donne amano moltissimo i figli, ma non gli sacrificano tutto e secondo me questo è sano. Io comunque per tutto quello che mi è successo, una maternità desiderata e mai arrivata, queste madri non posso che guardarle con una sorta di invidia. Non è un sentimento negativo, ma è ammirazione. Sono tutto quello che vorrei essere io».