Armi in ceramica, perfette nella fattura quanto fragili nell’uso, e un’armatura in vetro specchiato, magnifica quanto delicata. La guerra alla guerra si combatte così: trasformando in assurda bellezza oggetti atti a offendere, che perdono la loro natura e diventano un grido di pace.
È la coraggiosa intuizione di Sarah Revoltella, artista concettuale padovana, che porta la sua performance “Io combatto” in giro per il mondo. Cresciuta a Padova, qui si è laureata in lettere con una tesi sulla musica nel cinema di Luchino Visconti, cittadina del mondo, torna quando può da dove è partita: il Veneto.
«Qui vivo bene», confessa. «Ho viaggiato molto con zaino, sacco a pelo e tenda. E viaggio ancora, ma poi il cuore mi riporta a Padova che amo, a Venezia che adoro per la sua offerta culturale. Mantengo amicizie forti a Roma e nei luoghi in cui sono passata».
Come inizia la sua carriera artistica?
«La mia prima produzione è letteraria. Ho sempre scritto, sin da piccola. Raccontavo il mondo così come lo vedevo. Il mio primo libro, una sorta di racconto lungo, è stato “Cerchio rotto”, pubblicato nel 2000. Un testo difficile sul disagio giovanile, ispirato a quella moda assurda di quegli anni di lanciare i sassi dai cavalcavia. L’ho presentato a Padova, al Pedrocchi, in Sala Rossini, con Sabino Acquaviva. Era una scrittura molto visiva con descrizioni di particolari che poi si espandono in un respiro cinematografico. Una sorta di sceneggiatura che suggeriva un lavoro di inquadrature prima strette e poi larghe, accompagnato a dialoghi».
Già pronto per un film, dunque?
«Beh sì, con una gestazione un po’ lunga (sorride, ndr), come le grandi passioni: preso, mollato e poi ripreso ancora fino a portarlo a compimento. “Cerchio rotto” è diventato un lungometraggio, presentato all’ultima festival del Cinema di Cannes. Ci sono già accordi per la sua distribuzione internazionale e stiamo lavorando per farlo girare nelle sale italiane, spero entro fine anno. È una storia truce, dura, che indaga sulla spersonalizzazione indotta dal gruppo. È un thriller psicologico con scene forti. L’abbiamo girato in Veneto tra Padova, Rovigo e Stra. Faticosissimo e al tempo stesso adrenalinico, come ogni esperienza sul set. A fine riprese mi dico sempre mai più, ma poi vince il fascino della macchina da presa e del set».
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Quando approda all’arte concettuale?
«Nel 2010 mi sono interrogata sui nuclei familiari non tradizionali indagando sulle relazioni che nascono dall’incontro tra carica solare (maschile) e carica lunare (femminile). Da qui è nato il progetto “Polarizzazione”, un ritratto disinvolto di ventisette tipologie di famiglie rappresentate da un esercito di 154 coloratissime statue in ceramica smaltate. “Polarizzazione” racconta con ironia storie che inducono a riflettere e soprattutto stimolano aperture verso un’eterodossia fondante le famiglie di qualunque latitudine».
E la sua guerra alla guerra?
«Di natura sono una lottatrice: uso il paradosso per unire gli opposti e spingere a riflettere. Cos’è la pace se non la capacità di mettere insieme, far dialogare due punti di vista opposti? Nel centenario della Grande Guerra ho ideato la performance “Io combatto” che di recente ho portato anche a Venezia. Ho studiato a fondo il funzionamento delle armi, ne ho fatto realizzare dei modelli del tutto simili al reale in ceramica a Nove. Li ho portati nelle piazze e nei musei del mondo prima raccontandone con dovizia di particolari fattura e funzionamento, come farebbe un ottimo venditore d’armi, quindi distruggendoli: ho rotto fucili e kalashnikov in mille pezzi svelandone l’intrinseca fragilità. Questa è la guerra e solo l’arte, la cultura, il pensiero finalmente libero possono vincerla. Compito del creativo è di proporre una soluzione altra. Questa è la mia».
Ma la guerra continua. Si sente sconfitta?
«Tutto sembra stia andando da un’altra parte. In Sardegna, ad esempio, con le tessitrici di Nule e il mio mega arazzo per la pace, dove i buchi neri della volta celeste si specchiano nei luoghi di guerra della volta terrestre in una coincidenza terribile e affascinante al tempo stesso, ero riuscita a ridurre l’attività della Rvm, che produce armi. Poi è scoppiato il conflitto in Ucraina e la produzione di munizioni e testate per la guerra in trincea è ripresa giorno e notte. Ma io non mollo. Ognuno deve sentirsi responsabile, fare la propria parte. Non credo nella cattiveria, ma piuttosto nella necessità di acquisire consapevolezza».
Come si cambia il mondo?
«Spingendo per un sistema economico alternativo: la competizione deve essere etica. Non si vince mettendo in campo la violenza, ma con la forza delle idee, con la difesa dell’ambiente, il rispetto dell’altro. La pandemia da Covid ha messo a nudo, semmai ce ne fosse stato bisogno, la nostra debolezza. E allora invece che in armi investiamo in arte, cultura, ecologia». —
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