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Basilicata 2024, la sanità non può attendere

Nella piccola ed ancora poco conosciuta regione, il tema dei servizi alla salute ritorna prepotente tra prospettive di crescita, collusioni con la mala-politica e ospedali in perenne affanno se non addirittura convertiti e demansionati. Per Valerio Mignone, clinico di Maratea formatosi nella Milano degli anni Sessanta sotto la guida di insigni accademici, «il tema della sanità, in particolare nell’area meridionale della Regione, dovrebbe essere al primo posto dell’agenda politica regionale, per limitare l’emigrazione sanitaria e gli appetiti di faccendieri senza scrupoli».

Si deve a due scrittori lontani mille miglia dalla piccola e fino ad allora sconosciutissima regione insulare, la scoperta della Basilicata agli occhi dell’Italia post-bellica. Ordinando una gran mole di materiale radiofonico raccolto tra il 1953 ed il 1956, lo scrittore e giornalista vicentino Guido Piovene (1907-1974), grazie al suo “Viaggio in Italia” era riuscito a porre la “questione Lucana” all’attenzione dell’ opinione pubblica nazionale che stava lentamente ricostruendo non solo le basi materiali della propria esistenza, quanto -soprattutto- quelle politiche, sociali e culturali: nel 1965 Piovene evidenziava come “(…) la Basilicata, non ancora assistita con speciale predilezione dai poteri centrali, è stata invece prediletta dagli intellettuali sopra ogni altra regione del Mezzogiorno, e sembra possedere il dono di aguzzare gli ingegni. Sulla Basilicata è Cristo si è fermato ad Eboli il libro che nel dopoguerra ha contribuito di più a imporre il problema del Sud alla coscienza nazionale (…)”. Quella svolta decisiva evidenziata da Piovene arrivava grazie ad un romanzo autobiografico: Carlo Levi (1902-1975), scrittore, pittore, intellettuale e partigiano torinese, lo “partorisce” tra il 1943 ed il 1944 a Firenze e lo pubblica per Einaudi nel 1945: dieci anni prima, tra il 1935 ed il 1936, era stato condannato al confino proprio nelle “desolate terre di Lucania” a causa della sua attività antifascista, “deportato” nello sconosciutissimo borgo di Aliano, nel materano, sino a calarsi nella realtà di quelle terre e delle loro genti. Dirà Levi, nella sua prefazione, che “come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore”. Evidenzierà lo scrittore torinese, ben più avvezzo alle Alpi che ricamavano la sua splendida Torino, che “(…) Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e le foreste (di Lucania, nda)”.

Oggi il mare di Maratea e l’imponente statua del Cristo Redentore, fatta erigere dal Conte Stefano Rivetti di Val Cervo, visionario imprenditore biellese che proprio qui installò le celebri industrie tessili a metà degli anni Cinquanta, contribuendo allo sviluppo economico, sociale e culturale dell’area, fanno da testimoni ad una conversazione senza sconti, nella quale cittadini, politici e operatori sanitari figurano attori a ruoli alterni di un palcoscenico non sempre all’altezza dei tempi…

Dottor Mignone, lei si è formato sotto le Guglie della Madonnina per poi ritornare, giusto 50 anni addietro, nella sua Lucania, a Maratea: nostalgia meneghina o preoccupazione lucana, in tema di sanità?

«La formazione ricevuta da maestri del calibro di Armando Trivellini e Guido Melli, impresse in quel giovane lucano che si confrontava con la Milano dei primi anni Sessanta una formazione severa ed altamente scientifica che avrei messo a disposizione della mia comunità di origine una volta rientrato in Basilicata. Inutile sottolineare che in mezzo secolo esatto sia cambiato il modo stesso di intendere la sanità, con l’idea di “ospedale” che oggi non è certamente quella con cui iniziai a confrontarmi negli anni Settanta in riva al Tirreno della mia terra. Da allora, pur tra carenze di ogni sorta, ho incontrato ottime professionalità tra medici, chirurghi, infermieri e personale tecnico-amministrativo, e consideri che parlo di un ambiente socio-culturale ed economico allora ancora arretrato».

Dottore, non si sottragga al confronto serrato! Maratea già nel 1734 era sede di un “Ospedale per i poveri infermi”. Oggi non si parla certo di “ospedale”…

«Le ripeto: è cambiato il modo stesso di intendere la cura ospedaliera! Gli antichi Ospedali erano luoghi di accoglienza e di ospitalità per viandanti e pellegrini diretti a Roma, capitale della Santa Romana Chiesa; basta il nome per rievocarne le funzioni, come nel caso di Napoli con i suoi “Pellegrini” e “Incurabili”. Gli ospedali, con gli orfanotrofi per orfani e trovatelli, i lazzaretti per lebbrosi e appestati, i sanatori o tubercolosari per ammalati polmonari, rappresentavano il lascito che i benefattori del luogo intendevano destinare alla loro comunità. Era il sentimento filantropico che prevaleva…».

Oggi non più, immaginiamo…

«Perchè la sanità è stata tristemente burocratizzata! Il problema non riguarda ormai soltanto la qualità professionale, quanto anche la dotazione strutturale a supporto dei colleghi. Le faccio un esempio: se ci rechiamo nel vicino ospedale di Lagonegro, polo principale dell’intera area-Sud della Basilicata, ci imbattiamo in vere eccellenze professionali che però devono scontare il limite di mai superati ritardi strutturali e di strumentazioni e macchinari non sempre al passo con i tempi. Per me, operando spesso in condizioni al limite, questi colleghi sono “eroici”, e lo dimostra la circostanza che quest’ospedale, da tempo, è diventato punto di riferimento non solo per i lucani quanto anche le confinanti Calabria e Campania».

E questi “ritardi strutturali” a cosa possono condurre?

«Al trasferimento, anche con elisoccorso, presso l’ospedale regionale San Carlo di Potenza, con tutte le conseguenze del caso: sofferenza non solo per il paziente o i suoi familiari, ma anche per gli stessi medici locali che vivono con disagio la frustrazione di non poter essere riusciti a dare risposte in termini scientifici per motivi che esulano dalle proprie competenze professionali».

Ci incuriosisce il suo punto di vista da un osservatorio privilegiato di medico ed ex parlamentare…

«Se la sanità è cambiata si figuri cosa dovrei dire dell’approccio politico al problema: guardi che la mia esperienza di parlamentare iniziò 30 anni addietro (per intenderci nell’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi), ma sembra passato molto di più. E sa perché? Perché ancora in quella Seconda Repubblica avevamo vivi ed attivi i partiti politici che, in ogni caso, continuavano a svolgere il ruolo che la Costituzione assegna loro. Oggi, nel silenzio assordante della loro reale assenza, è più facile che gruppi e uomini di potere, o veri e propri “faccendieri”, possano agire indisturbati proprio nel settore della sanità per coltivare interessi ben lontani da quelli pubblici».

Le appartenenze politiche ridotte a comitati elettorali, insomma. A proposito: sempre a Lagonegro si è passati, in pochi mesi, dal dilemma sul nuovo sito ospedaliero ad una maxi-inchiesta, esplosa il 7 ottobre del 2022, che ha disvelato un coacervo di interessenze tra sanità e mala-politica.

«Si parlava da tempo del nuovo ospedale in questo territorio, grazie ai finanziamenti europei, come l’ultima occasione per una medicina moderna, in una struttura costruita con stile architettonico, materiali e sistemi innovativi: e invece il presunto mercimonio politico-elettorale a Lagonegro in occasione delle elezioni amministrative del 2020, culminata nell’ottobre del 2022 con misure cautelari e perquisizioni, ha disvelato una complessa serie di reati contro la Pubblica amministrazione. Fine dei sogni».

Insomma, l’ospedale è morto prima di venire alla luce…

«Se vogliamo usare un’immagine tristemente evocativa, direi di sì… ».

Sarà anche per questi “comitati d’affari” che le cronache raccontano di una sanità ondivaga nel Lagonegrese, da “passo del gambero”...

«Purtroppo la mala-politica, come abbiamo visto solo due anni addietro, ha messo le mani sulla gestione della sanità. Nonostante ciò, il sistema sanitario si è salvato con i suoi “anticorpi”, e mi riferisco ai meriti del personale sanitario, che continua a svolgere le sue funzioni con orari massacranti, abnegazione e professionalità. Quanto a noi occorre continuare ad avere fiducia nella magistratura per il suo impegno nel contrasto di queste illegalità nella gestione della sanità pubblica».

Ha una lunga esperienza medica e politica. Cosa suggerirebbe?

«Tra crisi economica e sociale e confusione politico-istituzionale, soprattutto per le regioni meridionali sarebbe necessario un patto tra maggioranza ed opposizioni che bandisca la demagogia nelle azioni miranti a risolvere i gravi problemi della Sanità. Occorre razionalizzare il sistema ed estendere la partecipazione democratica alla gestione del comparto sanitario, intento -quest’ultimo- costante del legislatore sin dalla prima legge di istituzione del Servizio sanitario nazionale, la numero 833 del 1978. E successivamente, volendo limitare le potenzialità monocratiche delle direzioni generali, introdotte nel sistema per dare alla sanità un’efficienza di tipo aziendale, con il decreto legislativo n. 229 del 1999, vennero aggiunti rappresentanti delle autonomie locali agli organi di controllo democratico e politico sull’attività gestionale della Sanità».

Riforma sanitaria senza fine…

«Oggi ragioniamo in termini di “medicina circolare”, come integrazione tra medicina del territorio e medicina ospedaliera; ma anch’essa non è una novità, visto che era stata finalizzata anche con la stessa legge 833/78, e poi stravolta, per insufficienza di risorse finanziarie, da quelli che definisco “guastatori della sanità pubblica e della democrazia”».

C’è il dato giuridico, certo, diciamo pure che è cambiata anche la percezione dei cittadini al tema sanitario…

«E fortunatamente, direi! Noi tutti siamo consapevoli che la sanità consumi risorse e che non ne produca, motivo per cui occorre che sia sottoposta ad una gestione assolutamente oculata, senza perciò stesso limitare diritto alla salute e alla partecipazione democratica. Lo dico da medico, in primis: la collettività ha tutto l’interesse a non considerare il paziente sanitario come un consumatore di risorse, e, se ancora in età lavorativa, reinserirlo al più presto nel ciclo produttivo, proprio per non gravare ulteriormente sulla finanza statale».

Beh, qualche passo in avanti è stato compiuto a livello di legislazione nazionale…

«Certo, lo abbiamo registrato con la riduzione del numero delle Aziende sanitarie locali e -quindi- con la limitazione di quel vero potere politico-burocratico che in esse veniva esercitato e che esse stesse erano arrivate a rappresentare sullo scacchiere politico, dal livello locale a quello nazionale. Si sono risparmiate risorse economiche, e, al contempo, non si è registrata una limitazione democratica nella gestione della sanità. Tuttavia nel nostro Mezzogiorno si lamenta -i cittadini lamentano…- un peggioramento dell’offerta medico-sanitaria».

Ci rivolgiamo all’ex primario di medicina e all’ex direttore sanitario dell’ospedale di Maratea: oggi il presidio sembra essere l’ombra di sé stesso. Quest’immagine fa più male al clinico o al politico Mignone?

«La struttura cui mi legano i ricordi di una vita, pur avendo cambiato “ragione sociale” e funzioni medico-sanitarie, come per tanti altri nosocomi sparsi in Italia, è sede di un servizio di Pronto soccorso nel quale è assicurata la presenza, lungo tutte le 24 ore, di un medico e di un infermiere le prestazioni vengono assicurate in base ad uno dei codici di accesso e qualora le condizioni di un paziente dovessero apparire serie, si deciderà per l’immediato trasferimento presso il già citato ospedale di Lagonegro, tra l’altro munito di servizio di terapia intensiva. Nel plesso sanitario, inoltre, trovano alloggio gli ambulatori medici, il servizio di Guardia medica, il servizio di dialisi che evita ai nefropatici l’emigrazione forzata a giorni alterni e, cosa non irrilevante, ben tre Case di riposo: sono gestite anche da organizzazioni sanitarie private, e garantiscono -almeno- un ricovero prolungato nel tempo a quei pazienti che non dovessero avere possibilità di essere accuditi in ambito familiare. Lo ripeto: è cambiato il concetto di “ospedale”».

C’è un antico detto ancora di gran moda dalle sue parti: “a Potenza si va solo per guai”. Il capoluogo di Regione sembra ancora troppo lontano, e non ci riferiamo ai chilometri di distanza…

«Ah, vero! Sa bene che i detti popolari, soprattutto nel Sud “magico ed irrazionale” descritto da antropologi quali Ernesto De Martino, possiedono un corposo fondo di verità. La giustizia, la tassazione fiscale e la cura della salute, rappresentano, da sempre, le principali preoccupazioni del genere umano, a Milano come in Basilicata, ovviamente. Ma nella terra delle superstizioni e del “destino già scritto” un Tribunale, un’intendenza di finanza e un ospedale rimangono immagini ancestrali. Anche nel 2024…».

*

Valerio Mignone, lucano di Lauria, classe 1938, si è formato presso l’Università Statale di Milano dove è stato allievo dell’Istituto di patologia chirurgica e assistente presso l’Istituto di clinica medica dove ha svolto attività di ricerca pubblicando numerosi lavori scientifici. Specializzatosi in cardiologia e in malattie dell’apparato respiratorio, ha lavorato prima nel Policlinico Ospedale Maggiore di Milano e poi nella sezione distaccata dell’Ospedale Ca-Granda-Niguarda di Sesto San Giovanni. Rientrato in Basilicata nel 1974, ha fondato la divisione di cardiologia dell’ospedale di Maratea, diventandone per lunghi anni primario. E’ stato Deputato “progressista” del Collegio elettorale Lagonegrese-Val D’Agri nella XII Legislatura del 1994-1996 e Senatore della Repubblica per la Lista dell’Ulivo nel collegio del Metapontino-Senisese nella XIII Legislatura del 1996-2001. Cultore di storia locale, coniuga attraverso articoli di stampa e saggi la passione politica e l’impego per una migliore sanità nell’area Sud-occidentale della Basilicata.

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