Da Berlino a Berlino. Nella città in cui l’Italia alzava al cielo la sua quarta e finora ultima Coppa del Mondo, ieri, diciotto anni dopo quel trionfo, la Nazionale è precipitata rovinosamente lasciando il passo per i quarti di finale dell’Europeo alla Svizzera. La brutta figura, in realtà, non rappresenta un caso isolato. Dal 2006 a oggi, infatti, esclusa la parentesi dell’Europeo del 2021, l’Italia ha fatto incetta di mortificazioni calcistiche: citiamo, a titolo d’esempio, le eliminazioni dai gironi dei Mondiali di Sudafrica e Brasile a vantaggio rispettivamente di Nuova Zelanda e Costa Rica, la lezione di calcio subita nella finale dell’Europeo del 2012 a opera della Spagna, per non parlare dell’onta delle due mancate qualificazioni consecutive agli ultimi due Mondiali. L’ennesimo tonfo azzurro dal 2006 a oggi suscita il solito profluvio di analisi. Oggetti inflazionati di critica sono, in ordine sparso, i troppi stranieri nei nostri campionati, il poco insegnamento di tecnica nelle scuole calcio, l’imborghesimento sociale che ha desertificato cortili e oratori, fino ad arrivare alle scelte della Figc e del commissario tecnico di turno. Ma alle tante ragioni addotte al declino dell’Italia del calcio se ne potrebbero aggiungere altre due, di carattere squisitamente socio-politico.
La prima ragione è la crisi delle scuole calcio dovuta alla concorrenza di altri sport. Un tempo, tra i bambini che facevano attività sportiva la percentuale di quelli che praticavano il calcio era preponderante. In Italia imbattersi in un ragazzino appassionato di qualcosa di diverso dal pallone bianco a rombi neri era molto difficile. Ormai da anni non è più così. Il calcio è incalzato dalla crescente popolarità di altre discipline, di squadra e non. E ovviamente questa maggiore pluralità sportiva ha ridistribuito anche altrove potenziali talenti che prima erano principalmente appannaggio del calcio. Non è affatto detto che ciò rappresenti un male, ma è un dato su cui riflettere quando si analizza il declino del calcio italiano.
Altro elemento che riduce il numero di potenziali calciatori professionisti è la denatalità. E questo sì che è un male. È vero, il tema riguarda anche altri Paesi occidentali. Ma è in Italia che raggiunge notevole espressione, con una popolazione che invecchia e si riduce a ritmi spaventosi, tanto da rappresentare motivo di studio anche all’estero. Qui il tema è sociale quanto politico. Ne è consapevole il governo Meloni, che fin dal suo insediamento ha posto la questione in cima alla propria agenda, azionando in modo robusto le leve economiche ma con la ferma consapevolezza che sia essenziale muovere pure delle leve culturali. Serve veicolare l’idea che fare figli è il motore economico, sociale, culturale, identitario e finanche sportivo della nazione, altrimenti condannata all’apatia sotto ognuno dei punti di vista sopracitati. Un’Italia più feconda, insomma, è anche un’Italia calcisticamente più competitiva.
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