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“Assange non è un giornalista”. “Ha messo a rischio le fonti”. “Fu al servizio di Putin”. Ecco smontate 10 fake news sul padre di WikiLeaks

“Assange non è un giornalista”. “Ha messo a rischio le fonti”. “Fu al servizio di Putin”. Ecco smontate 10 fake news sul padre di WikiLeaks

Un personaggio controverso, che ha lavorato per Putin e aiutato Trump. Mercoledì 26 giugno, proprio il giorno in cui il fondatore di WikiLeaks atterrava a Canberra, nella sua Australia, dopo 14 anni di confinamento e incarcerazione, la trasmissione La7 Omnibus sparava a palle incatenate contro Julian Assange: dieci accuse in appena tre minuti e quarantasette […]

L'articolo “Assange non è un giornalista”. “Ha messo a rischio le fonti”. “Fu al servizio di Putin”. Ecco smontate 10 fake news sul padre di WikiLeaks proviene da Il Fatto Quotidiano.

Un personaggio controverso, che ha lavorato per Putin e aiutato Trump. Mercoledì 26 giugno, proprio il giorno in cui il fondatore di WikiLeaks atterrava a Canberra, nella sua Australia, dopo 14 anni di confinamento e incarcerazione, la trasmissione La7 Omnibus sparava a palle incatenate contro Julian Assange: dieci accuse in appena tre minuti e quarantasette secondi. Un record. Esaminiamole una per una.

Assange non è un giornalista.

Davvero uno che ha rivelato il manuale della Task Force militare che gestisce il campo di detenzione di Guantanamo, le email interne del regime siriano, i manuali della setta di Scientology, il video “Collateral Murder“, 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan, 391.832 report segreti su quella in Iraq, non è un giornalista? Davvero non è un giornalista uno che ha rivelato 251.287 cablo segreti della diplomazia americana, che hanno permesso di scoprire nel dettaglio come gli Stati Uniti guardavano alla Russia di Putin – descrivendolo come uno stato mafia – e hanno consentito di ricostruire gravissime violazioni di diritti umani, scandali e pressioni politiche in 180 nazioni?

Per i loro scoop, Assange e WikiLeaks hanno vinto una lunghissima sfilza di premi giornalistici. Dall’Economist New Media Award al Walkley Award – considerato il Pulitzer dell’Australia – fino al premio Günter Wallraff, che prende il nome dal giornalista tedesco celebre per le sue inchieste sottocopertura. Decine di giornalisti e giurie nel mondo, da Londra all’Australia a Berlino, hanno preso un clamoroso abbaglio nell’assegnare un premio da giornalista a uno che giornalista non è?

Assange ha fatto azioni che un professionista dell’informazione non fa: ha aiutato la whistleblower Chelsea Manning a hackerare i computer del Pentagono.

E’ vero? No. Chelsea Manning, è l’ex analista dell’esercito degli Stati Uniti che passò 700mila documenti segreti del governo americano a WikiLeaks, che hanno permesso di rivelare crimini di guerra, torture, uccisioni stragiudiziali dall’Afghanistan all’Iraq a Guantanamo.

Neppure le autorità americane, nel loro atto di rinvio a giudizio di Assange – ormai annullato perché il caso giudiziario contro il fondatore di WikiLeaks si è chiuso con un patteggiamento – hanno accusato Assange di aver hackerato i computer del Pentagono. Lo avevano incriminato per aver acconsentito ad aiutare Manning a craccare l’hash di una password. C’è una bella differenza. Senza entrare in dettagli estremamente tecnici, proviamo a spiegare cosa significa l’accusa.

Per ragioni di sicurezza, i computer non conservano le password degli utenti in chiaro. La password viene cifrata attraverso un algoritmo matematico, che produce un valore hash per la password. È questo hash che viene conservato nel computer, non la password stessa.

Le autorità americane accusavano Chelsea Manning di aver chiesto, durante una chat con un certo “Nathaniel Frank” – che secondo loro era un nome di copertura usato da Julian Assange nelle sue comunicazioni con Manning – di aiutarla a craccare l’hash di una password.

Secondo gli Stati Uniti, se Chelsea Manning fosse riuscita a craccare l’hash di quella password, sarebbe potuta entrare in quei computer con uno username che non le apparteneva, rendendo così più difficile identificare lei come la fonte che aveva passato i documenti a WikiLeaks.

Ma durante il processo di estradizione di Assange davanti alle corti britanniche, la difesa di Assange ha chiamato a testimoniare Patrick Eller, che è stato a capo delle indagini informatiche del Digital Investigation Command dell’esercito degli Stati Uniti a Quantico, in Virginia, e che, lasciato l’esercito, ha messo in piedi un’azienda di consulenza informatica, la Metadata Forensics.

Eller ha testimoniato che Manning aveva già accesso a tutti i database da cui aveva scaricato i documenti inviati a WikiLeaks e quindi entrare nei computer del Pentagono con uno username che non le apparteneva non le avrebbe dato più accesso di quello che aveva già, in modo del tutto legittimo, visto che Manning era un’analista dell’intelligence degli Stati Uniti, e quindi aveva accesso ai computer del Pentagono.

Secondo Eller, sulla base di quello che emerse durante il processo a Manning davanti alla corte marziale, è probabile che Manning avesse chiesto a quel “Nathaniel Frank”, che secondo le autorità americane era Assange, di aiutarla a craccare l’hash di una password perché nei computer con i documenti segreti i soldati americani installavano spesso software proibiti per vedere film, ascoltare musica, giocare online. Essendo Chelsea Manning particolarmente brillante nell’informatica, i commilitoni le chiedevano spesso aiuto per installare software proibito sui computer del Pentagono.

Né le accuse delle autorità americane né le controaffermazioni del perito della difesa di Assange sono mai state provate davanti a un giudice, visto che il processo non si è mai svolto e il caso giudiziario contro il fondatore di WikiLeaks si è mai chiuso con un patteggiamento.

Tuttavia, se davvero gli Stati Uniti avessero avuto in mano le prove che nel 2010 Assange aveva acconsentito ad aiutare Manning a craccare l’hash di una password, perché l’amministrazione Obama non incriminò subito Assange per reati informatici? Sarebbe stata una mossa che avrebbe tolto di mezzo Assange e WikiLeaks fin dal 2010. E invece l’amministrazione Obama non ha mai incriminato il fondatore di WikiLeaks per nessun reato.

Assange ha bruciato la fonte, che è finita in galera.

E’ una falsità mostruosa. Manning fu scoperta e arrestata perché, in un momento di fragilità umana, confessò in chat a un perfetto sconosciuto – che lei non aveva mai incontrato né di persona né via web – di aver passato i documenti segreti a WikiLeaks. Quello sconosciuto si chiamava Adrian Lamo, era un informatore, che la denunciò subito e Manning finì in galera. Queste sono verità giudiziarie, frutto di un processo davanti alla corte marziale, nel 2013.

Assange non pubblicò lui i documenti segreti del governo americano, come fanno i giornalisti: fece affidamento sui media tradizionali.

E’ vero? No. Assange e WikiLeaks pubblicarono eccome le rivelazioni, sul loro sito. E se oggi noi giornalisti possiamo ancora leggerle e usarle per fare inchieste, e qualsiasi cittadino, accademico o attivista, può consultarli, è solo grazie al fatto che Assange e WikiLeaks hanno avuto il coraggio di pubblicare la documentazione originale.

I file non furono resi pubblici senza criterio: decine di reporter di grandi giornali di tutto il mondo lavorarono in “media partnership” con WikiLeaks per verificare i documenti in parallelo con Assange e WikiLeaks, per trovare le rivelazioni più importanti e per proteggere i nomi delle persone a rischio. Chi scrive ha lavorato a tutti i documenti segreti di WikiLeaks. Sui cablo della diplomazia, ad esempio, lavorammo a rotta di collo per otto mesi, per selezionare i file da pubblicare.

Dopo aver fatto affidamento sui media tradizionali per pubblicare i documenti segreti del governo americano, Assange li bypassò e buttò tutti i file indiscriminatamente in rete, mettendo a rischio le fonti, che parlavano con le truppe americane in Afghanistan e i dissidenti dalla Cina all’Iran.

Falso. Se, alla fine, nel settembre del 2011, tutti i 251.287 cablo uscirono in forma integrale, senza che venissero protetti alcuni nomi, non è per colpa di Assange, che pubblicò tutto online per danneggiare gli Stati Uniti: è a causa di azioni di terze parti su cui né Assange né WikiLeaks avevano alcun controllo.

L’accusa che la pubblicazione dei 700mila documenti segreti del governo americano aveva messo a rischio vite umane è una delle grandi campagne di demonizzazione contro Assange e WikiLeaks, che hanno gravemente danneggiato la loro reputazione.

Quattordici anni dopo la pubblicazione di quei file, le autorità americane non sono riuscite a trovare un solo esempio di persona uccisa o ferita. Il patteggiamento, sottoscritto da Assange per ottenere la libertà, contiene la conferma finale: “Alla data di questo accordo di patteggiamento, gli Stati Uniti non hanno identificato nessuna vittima che si qualifichi per un risarcimento individuale”.

I grandi scoop del 2010 di WikiLeaks, come “Collateral Murder” non hanno prodotto niente.

Falso. I grandi scoop hanno creato un modello di giornalismo d’inchiesta basato sulle leaks e sulle partnership tra i grandi giornali di tutto il mondo. Questo modello è stato inventato proprio da Assange nel 2010, e poi è stato copiato da alcuni dei più grandi consorzi di giornalismo investigativo, come quello che ha pubblicato i Panama Papers.

Ma mentre i documenti di WikiLeaks possono leggerli tutti e usarli per fare inchieste, ricerca accademica, ricorsi in corti e tribunali, i documenti degli altri consorzi di giornalismo investigativo rimangono in gran parte inaccessibili, se non ai pochi reporter privilegiati che vi hanno accesso. Il modello WikiLeaks è superiore: dopo un periodo di esclusività limitata, in cui pochi media partner hanno accesso ai file di WikiLeaks, ne verificano l’autenticità e pubblicano le loro esclusive basate sui documenti, i file diventano accessibili sul sito di WikiLeaks a tutti.

Si tratta di una scelta rivoluzionaria, perché permette a qualunque lettore di avere accesso alle fonti primarie delle informazioni pubblicate dai media, cercare i fatti a cui è più interessato, utilizzare i documenti per chiedere giustizia in tribunale e anche verificare come i giornalisti li hanno riportati nei loro articoli: ne hanno scritto fedelmente oppure li hanno distorti, esagerati o censurati?

Questo processo di democratizzazione dà potere ai lettori comuni: non sono solo recipienti passivi di quello che riportano giornali, televisioni, radio, ma per la prima volta hanno accesso diretto alle fonti primarie e questo diminuisce l’asimmetria tra chi ha questo privilegio, come i reporter, e chi no.

I documenti di WikiLeaks, come i cablo, sono stati usati, tra gli altri, dagli abitanti delle isole Chagos per fare ricorso alla Corte Suprema del Regno Unito contro la loro espulsione da parte degli inglesi per costruirci una base militare americana. E sono stati anche usati da Khaled el-Masri, un commerciante all’ingrosso tedesco rapito, torturato e sodomizzato in una delle famigerate extraordinary rendition della Cia, per fare appello alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le email dell’azienda italiana Hacking Team sono state usate dal Washington Post per indagare sulla assassinio di Jamal Khashoggi.

Dopo gli scoop del 2010, Assange andò a lavorare per Putin, conducendo un talk show sulla televisione del Cremlino.

Falso. Lo show The World Tomorrow mandato in onda sulla televisione Russia Today, poi diventata RT, non era una collaborazione tra WikiLeaks e la televisione del Cremlino: era una produzione indipendente. RT ne aveva acquisito la licenza, per trasmetterlo, dalla società di distribuzione cinematografia inglese di nome Journeyman Pictures, così come l’avevano acquistata L’Espresso e La Repubblica per l’Italia.

Durante le elezioni presidenziali americane del 2016, Assange e WikiLeaks pubblicarono le email dei Democratici Usa, rubate dai servizi segreti russi. Assange fece da megafono e amplificatore di una campagna dei servizi segreti russi per colpire Hillary Clinton e aiutare Donald Trump. Assange negò di aver ricevuto le email dai servizi russi, ma ci sono le tracce digitali.

Falso. Le tracce digitali non forniscono prove certe che WikiLeaks ricevette le email dai servizi russi, che si nascondevano dietro due false identità che operavano online: DCLeaks e Guccifer 2.0.

Nel maggio del 2017 il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti incaricò il procuratore speciale Robert S. Mueller di indagare sul caso Russiagate, ovvero sulle presunte operazioni di influenza della Russia nelle elezioni presidenziali del 2016. Dopo quasi due anni di indagini, nell’aprile del 2019 fu reso noto il “Mueller Report“, che sintetizzava i risultati dell’inchiesta. Dal report emergeva che la Russia aveva interferito nelle elezioni, hackerando le email dei democratici, sebbene il procuratore non avesse trovato prove di una cospirazione o di un coordinamento tra la campagna di Trump e la Russia, ipotesi questa che era al centro della teoria del Russiagate.

Secondo il rapporto Mueller, nascondendosi dietro due false identità, DCLeaks e Guccifer 2.0, i servizi segreti russi del Gru avevano contattato WikiLeaks attraverso i messaggi diretti di Twitter per proporre i documenti, poi inviati con email criptate tramite PGP. Mueller non accusava l’organizzazione di Assange di essere consapevole che dietro quelle due identità ci fosse la Russia, né spiegava una contraddizione macroscopica: come era possibile che il fondatore di WikiLeaks avesse annunciato urbi et orbi la pubblicazione delle email il 12 giugno 2016, mentre il primo contatto con DCLeaks era avvenuto, secondo l’indagine di Mueller, il 14 giugno, e quello con Guccifer 2.0 il 22 giugno? Le “tracce” digitali non risolvono questa contraddizione e il rapporto Mueller non offre alcuna certezza su chi e come inviò quelle email a WikiLeaks.

Sono passati otto anni dalla pubblicazione delle email dei Democratici americani, a oggi, WikiLeaks e Julian Assange non sono stati incriminati per la pubblicazione delle email dei democratici e l’inchiesta non ha portato a individuare alcuna forma di coordinamento tra la campagna di Donald Trump e l’organizzazione di Assange.

Un mese dopo che Trump ebbe vinto le elezioni, la Bbc intervistò l’allora direttore del New York Times, Dean Baquet, che aveva pubblicato molti articoli basati sulle email dei Democratici, rivelate da WikiLeaks. Baquet disse che il pensiero che, pubblicandole, potesse essersi messo al servizio di Vladimir Putin, a volte, lo aveva tenuto sveglio la notte, ma aggiunse: “Mi terrebbe sveglio di notte ancora peggio, o almeno più a lungo, tacere informazioni provenienti da un hackeraggio, che so essere vere e che gli elettori e i cittadini dovrebbero conoscere. Quello mi metterebbe veramente a disagio… Perderò un po’ di sonno perché sono stato manipolato? Certo, ma perderei molto più sonno se tenessi quelle informazioni in una cassaforte”.

La Bbc sintetizzò il pensiero del direttore del New York Times in questo modo: “Per Baquet l’informazione vince su tutto, non importa come è stata ottenuta”. Fu proprio Donald Trump nell’aprile del 2019 a incriminare Julian Assange, ma non per la pubblicazione delle email dei Democratici: lo incriminò per la rivelazione dei file segreti del governo americano, passati a WikiLeaks da Manning, che hanno permesso di rivelare crimini di guerra, torture, uccisioni stragiudiziali con i droni, dall’Afghanistan all’Iraq a Guantanamo.

Assange non ha mai avuto un processo perché è stato un latitante. Non si è fatto interrogare in merito alle accuse di stupro.

Falso. Il fondatore di WikiLeaks si fece interrogare dalla polizia svedese il 30 agosto 2010, dieci giorni dopo che fu aperta per la prima volta l’inchiesta svedese per stupro e molestie. Se il secondo interrogatorio richiese oltre sei anni e fu condotto a Londra solo il 14 novembre 2016, è a causa della procuratrice Marianne Ny, che rifiutò di usare gli accordi di cooperazione giudiziaria (Mlat) per interrogarlo nella capitale inglese, dove Assange si era recato per lavorare alla pubblicazione dei documenti segreti del governo americano con il Guardian.

Fin dal 2010, i legali del fondatore di WikiLeaks avevano chiesto di interrogarlo al telefono o via videoconferenza, per iscritto o di persona all’ambasciata dell’Australia o dell’Ecuador. Rifugiandosi nell’ambasciata ecuadoriana, il fondatore di WikiLeaks non si rese irraggiungibile alla giustizia svedese: l’Ecuador offrì immediatamente la sua collaborazione alla Svezia per consentire l’interrogatorio in ambasciata, ancora prima di concedergli l’asilo. La Svezia neppure rispose. Tutte le opzioni per interrogarlo al telefono, via videoconferenza o di persona in ambasciata erano perfettamente legittime secondo le leggi svedesi, ma la procuratrice le rigettò tutte.

Solo la nostra battaglia legale con il Freedom of Information Act (Foia) ha permesso di scoprire perché: erano state le autorità inglesi del Crown Prosecution Service a dire a quelle svedesi di non andare interrogarlo a Londra e, così facendo, contribuirono a creare la paralisi giudiziaria e diplomatica che ha tenuto Assange intrappolato nel Regno Unito fin dal 2010. L’inchiesta del Relatore Speciale contro la Tortura, Nils Melzer, ha confermato le nostre rivelazioni e ha portato alla luce cinquanta violazioni del giusto processo, inclusa “la manipolazione proattiva delle prove”.

Le accuse di stupro hanno tolto qualsiasi empatia da parte dell’opinione pubblica al fondatore di WikiLeaks per un decennio, specialmente di quella fetta dell’opinione pubblica più sensibile alle rivelazioni dei documenti del governo americano sui crimini di guerra e sulle torture, perché, spesso, quella fetta coincide con quella più attenta ai diritti delle donne. L’indagine svedese ha avuto un ruolo cruciale nell’intrappolare Assange a Londra a partire dal 2010 in poi, sotto la costante sorveglianza di Scotland Yard, fino al suo arresto da parte delle autorità inglesi, avvenuto l’11 aprile 2019.

Julian Assange ha sistematicamente attaccato l’Occidente, facendo gli interessi di Putin, ma l’Occidente è superiore a quello che lui pensa, perché Obama ha graziato Chelsea Manning e Biden ha ridato la libertà ad Assange.

Falso. Assange non ha fatto gli interessi di Putin, rivelando i crimini di guerra e le torture delle truppe americane in Afghanistan. Innanzitutto, WikiLeaks non ha rivelato solo i crimini di guerra delle forze americane, ma, per esempio, anche quelli dei talebani, e poi, rivelandoli, WikiLeaks ha fatto gli interessi di Putin: ha fatto quelli dei cittadini dei paesi democratici, che hanno diritto di conoscere cosa fanno i loro governi con i soldi delle loro tasse e a nome loro.

Rivelare crimini di guerra del mondo occidentale non è avvantaggiare la Russia o la Cina. E’ il primo passo per pretendere giustizia e punire i criminali. La democrazia si regge sul fatto che i governanti rispondono delle loro azioni ai governati, se i cittadini non hanno accesso alle informazioni su come operano gli apparati dello Stato, i servizi segreti, la diplomazia, la democrazia non esiste.

Assange è sempre stato criticato come il figlio ingrato dell’Occidente, che lo ha cresciuto nel benessere e nella libertà di fare luce negli angoli più oscuri dei nostri governi. Un’Occidente, che, stando a Omnibus, alla fine possiamo considerare benigno, perché Obama ha graziato Chelsea Manning e Biden ha ridato la libertà a Assange.

In realtà, il presidente Obama non graziò Manning, le commutò la pena di 35 anni di carcere ai 7 anni che aveva già scontato in una dura prigione militare, perché Manning aveva provato a suicidarsi due volte. Eletto Trump, Manning fu rimessa in galera e provò ad ammazzarsi per la terza volta. Solo a quel punto le autorità americane la liberarono. Gli Stati Uniti non volevano e non potevano fare la figura della Russia di Putin, dove i giornalisti e le loro fonti spesso finiscono ammazzati. Questa è anche la ragione per cui Assange non è stato ammazzato e, alla fine, è stato liberato.

Una dittatura avrebbe inviato sicari e manganellatori a liquidare Assange e i giornalisti di WikiLeaks, subito dopo la pubblicazione di “Collateral Murder”. Il complesso militare e d’intelligence degli Stati Uniti e dei loro alleati, invece, ha usato tecniche meno brutali. E questo e certamente preferibile. Ma il punto è che non c’è bisogno di essere brutali quando si può far crollare un giornalista con la tortura psicologica invece che con quella fisica. Non serve fare bruciature di sigaretta sulle braccia di Assange, quando lo si può portare sull’orlo del suicidio, con dieci anni di detenzione arbitraria senza un’ora d’aria e senza via d’uscita.

Per aver rivelato crimini di guerra e torture, Manning è stata condannata a 35 anni, ne ha fatti 7 in prigione, ha provato ad ammazzarsi tre volte. Assange ha passato 14 anni tra confinamento e incarcerazione. I criminali di guerra e i torturatori denunciati da WikiLeaks, invece, hanno sempre dormitto tranquilli nei loro letti, godendosi le loro famiglie, indisturbati.

E’ questa la faccia nascosta dell’Occidente che Assange ha denunciato, sentendosi dare del figlio degenerato, del venduto a Putin, dello stupratore, del criminale con le mani sporche di sangue. Non deve essere stato facile per lui vedere distrutta la sua reputazione e nessuno gli ridirà indietro gli anni migliori della sua vita.

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