TRIESTE. «Le sudate carte». Una tavola rotonda a Roma del 1995 così definiva gli archivi storici dello sport: se ne evidenziava il prezioso ruolo di “ponte” tra la storia nazionale e locale, tra lo sport e la cultura popolare. La Società ginnastica triestina (Sgt) disponeva già all’epoca di un Museo e un archivio sportivo, tutt’oggi presente nella sede storica di via della Ginnastica 47. Ed è attraverso questo patrimonio di carte e fotografie, di diplomi e coppe che la storia non solo dello sport, quanto di Trieste riemerge nella sua complessità.
Il primo elemento deriva dalla sua stessa nascita: la Ginnastica triestina fu infatti la seconda polisportiva più antica d’Italia (1863), seconda solo alla Regia società ginnastica di Torino (1844). Lo statuto desiderava «promuovere gli esercizi ginnici onde giovare al bene fisico e morale della gioventù triestina». Tuttavia, a differenza dei cugini torinesi, la Sgt nacque quale conseguenza delle riforme liberali dell’impero austriaco e come tale dimostrò, fin dall’inizio, un carattere filoitaliano che, tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, si trasformò in un sentimento dapprima irredentista e infine di partecipazione attiva al fronte italiano con 500 soci in trincea e 67 caduti.
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Dal 1863 al 1918, la Sgt venne non a caso chiusa dalle autorità austriache sei volte. Eppure la Ginnastica, come scrisse Silvio Benco «sempre uccisa e sempre rinascente», si ricostituiva ogni volta «in uno stampo che era sempre lo stesso». La prima rifondazione nel 1868 comportò l’adozione di una bandiera che, per la prima volta, era quella di Trieste: alabarda in acciaio su campo rosso; e tre anni dopo la Sgt costruiva la palestra di via del Farneto tutt’oggi in uso.
I nomi che compaiono nelle liste dei soci della Ginnastica di allora suonano familiari: il presidente Felice Venezian, uno dei maggiori leader dei liberalnazionali dell’epoca; l’istruttore Gregorio Draghicchio che portò in Italia la ginnastica “moderna; lo schermidore Napoleone Cozzi che dipinse i medaglioni del Caffè San Marco e le decorazioni liberty dell’Ospedale psichiatrico San Giovanni; il direttore appassionato di scherma Aron Hector Schmitz, alias Italo Svevo.
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L’ultima traumatica chiusura avvenne a seguito della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, quando nel 1915 la Sgt fu il primo edificio dato alle fiamme, perché simbolo italiano.
La rinascita nel primo dopoguerra corrispose all’arrivo di un nuovo sport: il basket. La pallacanestro divenne presto popolare alla Sgt, consentendole tra il 1930 e il 1958 di conseguire 10 scudetti. Chiamata la “nazionale”, la squadra maschile della Sgt primeggiò nei primi anni Trenta con giocatori (e allenatori) entrati nella storia: Livio Franceschini, Ambrogio Bessi, Ezio Varisco, Mario Novelli… Un’abilità contraccambiata, nel secondo dopoguerra, dalla squadra femminile guidata Emanuele “Lele” Guarini e Ferruccio Ghietti: nomi come Silia Martini e Tina Steiner negli anni Trenta e poi Imelda Prennushi, Mirella Tarabocchia, Laura Vascotto e tante altre.
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La stella in ascesa della Sgt le permise, nel 1922, il ruolo di organizzatore dell’XI Concorso ginnico nazionale: 67 società sportive e cinquemila atleti gareggiarono all’Ippodromo di Montebello. Fu l’occasione per recapitare alla Ginnastica triestina una lettera del vate Gabriele D’Annunzio che le assegnava un nuovo motto: “Stricto gladio tenacius’, acronimo della tenacia di cui la Sgt aveva dato prova.
Intanto, sull’onda dei successi nelle competizioni nazionali, la Sgt debuttava alle Olimpiadi di Berlino del 1936: nell’occasione la quattordicenne Elda Cividino si classificò prima assoluta nell’esercizio alla trave d’equilibrio.
Tra i presidenti degli anni Trenta sorprende notare, tra le carte dell’archivio, il volto del Duca d’Aosta: dal 1931 accettò infatti la carica onoraria, proteggendo la Sgt dalle ingerenze fasciste.
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La Seconda guerra mondiale trasformò la palestra della società sportiva in terreno di occupazione: dapprima delle truppe titine, poi neozelandesi. L’interlocuzione avviata dal nuovo presidente Antonio Fonda Savio, comandante delle forze di liberazione italiane, permise la restituzione dell’edificio da parte degli Alleati. Come nel primo dopoguerra, anche nel secondo brillarono le vittorie sportive: tra tutte, alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, la medaglia d’oro nel fioretto della socia Irene Camber. Si trattò del primo titolo olimpico della città e il primo femminile in Italia.
La crescita dei soci e il moltiplicarsi delle attività sportive comportarono infine nei decenni del Sessanta e Settanta l’allargamento della sede, con la costruzione delle due ali laterali e infine, negli anni Novanta, dell’ultima palestra sovrastante il parcheggio. Una crescita organica, testimoniata dalle carte e dalle mappe dell’archivio: uno dei rari casi in Italia di una società sportiva ultracentenaria sviluppatosi dal nucleo ottocentesco originale.