foto da Quotidiani locali
Lisa Boattin, la sua carriera è partita proprio da San Stino di Livenza con la squadra del paese, un’ascesa che l’ha portata a essere una delle protagoniste del nostro calcio sia con la maglia della Juventus sia con quella della nazionale. Ci racconti quegli inizi.
«Quando ero piccola vivevo a San Stino, dopo ci siamo spostati qui vicino a Corbolone, ed è lì che ho iniziato a giocare a calcio con i miei amichetti del paese. Una passione che è nata grazie a mio papà, da sempre tifoso juventino ed ex calciatore. Anche lui ha giocato nella squadra di San Stino e condividere questo aspetto mi ha sempre emozionato, anzi pensi che cerco sempre di tornare a casa in questo periodo perché la società tutti gli anni organizza un torneo estivo al quale anche io ho preso parte da piccola e ogni volta ne approfitto per entrare in sede e andare a vedere le vecchie foto che ritraggono mio papà».
La sua famiglia come l’ha accompagnata nella crescita della sua carriera?
«Papà era molto felice che giocassi, mamma non era tanto d’accordo all’inizio. Mi ha fatto provare anche altri sport come il nuoto, che mi piaceva molto, per poi passare alla ginnastica artistica e lì diciamo che ha avuto la conferma che nel mio cuore c’era solo spazio per il calcio perché arrivate al momento del saggio mi opposi e non lo feci: “Io il tutù non lo metto”, dissi, mettendo fine a quell’esperienza. Da quel momento, nonostante la riluttanza iniziale, mamma mi appoggiò e insieme a mio padre hanno fatto tantissimi sacrifici, primo tra tanti quello di accompagnarmi a giocare a Venezia facendosi 50 chilometri ad andare e altrettanti a tonare. Avere un padre e una madre così mi fa sentire davvero fortunata».
E la maglia della Juventus, cosa significa per lei?
«Eh (sospira, ndr) guardi le racconto una cosa, quando ho portato la maglia delle 200 presenze nella sala dei trofei al museo della Juventus ho incrociato lo sguardo di mio padre e l’ho visto commosso per la prima volta dopo questi 7 anni in bianconero. È stata un’immagine così forte che mi ha fatto pensare ancora una volta quanto sia speciale indossare questa divisa. Vede, è difficile spiegare in poche parole cosa provo ogni volta che metto questa maglia, ma è come se tutte le volte portassi addosso il sogno della mia famiglia, il mio, quello di mio padre».
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Nel mondo del calcio femminile, rispetto a quello maschile, ci si scontra quotidianamente con la discriminazione non solo rispetto alle prestazioni, ma anche al fatto di essere donne che giocano a uno sport considerato per anni a esclusivo appannaggio degli uomini, come si combatte tutto questo?
«È dura combatterlo. In questi anni abbiamo vissuto prima un boom di popolarità, grazie ai risultati ottenuti con i Mondiali del 2019, e poi è bastato veramente poco per vedere tante persone scendere dalla barca. Le persone spesso si dimenticano che dietro l’atleta c’è un individuo che si allena, fa sacrifici e ce la mette tutta e non sempre può vincere, ma non per questo deve essere sminuito o preso di mira anche rispetto al proprio privato. Io faccio quello che amo, che mi fa sentire me stessa ed è assurdo che mi debba sentire discriminata perché gioco a calcio, non è uno sport solo maschile: il calcio è di tutti».
Rispetto ai vostri colleghi del maschile, però, quello che si può constatare è il vostro modo di vivere libero e privo di ogni condizionamento, a partire dalla sessualità, un vero e proprio tabù nel calcio dei grandi numeri. Basta pensare a Jakub Jankto, il primo calciatore a giocare in massima serie che ha deciso di fare pubblicamente coming out in un ambiente fortemente omofobo.
«La strada è lunghissima. Credo che per noi sia stato più “semplice” perché siamo sempre state coraggiose fin dall’inizio lottando contro un sistema che ci diceva che non potevamo fare un sport considerato per uomini. Allo stesso modo Jankto è stato altrettanto coraggioso e penso che la cassa di risonanza e la visibilità che hanno i calciatori può essere un veicolo per poter aiutare coloro che hanno paura di essere loro stessi nella vita di tutti i giorni. Credo che il vero passo in avanti ci sarà quando non si dovrà dire più nulla, io ho parlato della mia relazione con Linda (Sembrant) durante una campagna promossa dal club per San Valentino con la stessa naturalezza con cui lo hanno fatto gli altri protagonisti, Cecilia Salvai e suo marito Marco Borgese e Manuel Locatelli e la moglie Thessa Lacovich, perché stavo semplicemente dicendo a tutti che sto con la persona che amo. Questo è il vero traguardo da raggiungere: quando potremmo dire di stare con la persona che amiamo senza aggiungere altro».
Prima di salutarla le chiedo se ha ancora un sogno nel cassetto che vuole realizzare?
«Certo che sì. Vorrei poter giocare una finale di Champions League con la Juventus, perché sarebbe veramente il coronamento del sogno di una vita. Poi si può vincere o perdere, ma arrivare a disputare una partita così importante sarebbe bellissimo. Spero di poter continuare a crescere insieme a questo club e di vederlo arrivare tra i top in Europa».
