foto da Quotidiani locali
GORIZIA. Metti una quieta città di confine, sfiorata da un fiume che si avvia a un placido scorrere di pianura. Una città tranquilla, dove i contadini portano le primizie della campagna, le classi borghesi frequentano i caffè, i ritrovi, il teatro, chiacchierano e flirtano nelle piazze, e le classi popolari vivono una quotidianità serena ed allegra, con feste e sagre e senza ansie per il domani.
Città di prorompente vitalità meridionale, descritta, nel libro di cui parleremo, con quel trasporto che solo chi è nato a nord della Alpi conosce. Poi la guerra. Inattesa, improvvisa, spietata. Che avanza con progressione inesorabile; la città pian piano ingrigisce e si svuota, piazze e vie devastate da bombardamenti che non risparmiano case, chiese, edifici pubblici. Tramonta la gioia di vivere e trionfano invece disperazione, rabbia, esulanza. E sui colli che proteggono la città verso occidente attaccanti e difensori si dissanguano per lunghi mesi in scontri che costellano i pendii di cataste di corpi.
Questa è Gorizia, in “Marietta”, un romanzo goriziano, libro scovato fra la polvere delle biblioteche e riproposto dall’Associazione Lumen Harmonicum presieduta da Massimo Favento, insieme a una cordata di associazioni, fra le quali l’Istituto Giuliano di Storia e Cultura e Documentazione per la consulenza storico-letteraria, nel contesto del progetto “Gorizia … Una dama?” finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia.
“Marietta, ein Roman aus Görz” vide la luce a Graz nel 1917, dopo la conquista italiana di Gorizia, e fu ripubblicato, con un certo successo, nel 1918, dopo Caporetto. Tradotto per la prima volta in italiano da Daniela Spanu, Ilona Grosser e altri collaboratori, lo si legge nella collezione Profili Musicali di Lumen Harmonicum (“Marietta!, con il saggio di Andrea Moserini e un ricco apparato iconografico, pp. 275, euro 20). “Marietta” sarà presentato martedì, alle 17.30, al Circolo della stampa diTrieste.
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Il suo autore, Volkmar Iro (1889-1961), figlio di un deputato del parlamento austriaco, ha preso parte alla Grande Guerra, probabilmente anche sul fronte isontino, ed utilizza l’espediente di una storia d’amore – Marietta e i suoi tre corteggiatori, accorgimento che imprime al racconto tensione e svolgimento – per descrivere gli orrori della guerra che investe una città, abilissimo ad evocare un contesto di morte e disperazione. E pur considerando l’ampio recupero di opere e autori di cui ha goduto la Grande Guerra negli anni dell’anniversario inondando libreria e biblioteche, questo romanzo, per più aspetti fragile, spicca per l’originalità. In una guerra che è stata soprattutto di posizione – trincee, reticolati, inutili assalti respinti nel sangue – non è giunta fino a noi nessuna opera di narrativa che racconti l’assedio e la conquista di una città (episodi rari ma che pure non mancarono: Liegi, Anversa, Przemiśl).
“Marietta” va così a colmare un vuoto e lo fa con spirito straordinariamente moderno. Il personaggio in cui l’autore si rappresenta, l’alfiere Heinrich, come Iro nell’arma dell’artiglieria, compie il suo dovere di soldato con disciplina e onore, e senza ombra di odio per il nemico, ma non si nasconde (e non lo cela ai lettori) che la vita vera, degna di essere vissuta, è quella della pace e dell’amore. E il suo raccapriccio nei confronti dell’orrore sembra dar eco al sentire comune di chi coltiva l’ideale etico di un’umanità fraterna.
Così, sul Podgora, Heinrich, sconvolto dallo scenario d’incubo che si apre ai suoi occhi: «quella poltiglia marcescente e straziata era stata uomini, uomini dotati di cervello, ognuno dei quali aveva pensato, aveva sperato e aveva amato, forse in quello stesso momento la loro fotografia veniva accarezzata da mogli o madri tremanti d’ansia, e qui in una massa scura diffondevano il loro puzzo come un’unica carogna. Tra i reticolati erano ancora appesi alcuni cadaveri dell’attacco pomeridiano, il capo reclinato sul petto, le dita avvinghiate al filo spinato, si distinguevano ancora chiaramente dai morti precedenti, con le facce nere, irriconoscibili, goffamente collassati, appesi lì giorno e notte come spaventapasseri, fino a quando gli abiti cedevano sotto il peso dei corpi gonfi e li facevano cadere a terra sopra quelli dei camerati».