La fisica è una cosa, e la cosa è un’altra cosa. Dalla prima deriva la metafisica, ciò che è oltre la realtà; dalla seconda deriva la Metacosa, ciò che è sopra le cose, in un mondo dì idee che è il pensiero del pittore rispetto all’ordine del mondo, oltre le nature morte di Giorgio Morandi, e la celebrazione degli oggetti di Domenico Gnoli, ultimo approdo della metafisica. Dieci anni di silenzio e di attesa. Una lunga attesa, in silenzio e in meditazione. Metacosa. È difficile dire chi, nel gruppo di pittori riuniti per la prima volta in mostra a Brescia nel 1979, abbia felicemente coniato questo nome per un movimento in chiusura di secolo. Gli anni erano propizi. Nel 1978, al culmine del delirio di inappartenenza, Alberto Sordi aveva diretto e interpretato Le vacanze intelligenti (uno dei tre episodi del film corale Dove vai in vacanza?) il contributo critico più puntuale sull’equivoco delle avanguardie, rinvigorite nel Secondo dopoguerra.
I pittori della Metacosa testimoniavano un’insoddisfazione, e la necessità di un ritorno alla pittura, che non fosse però nell’ordine del già conosciuto neorealismo e, tanto meno, della testimonianza ideologica di Renato Guttuso o delle isolate esperienze di Alberto Sughi e di Riccardo Tommasi Ferroni. Non erano comunque soluzioni. E così, in Lombardia, intorno a Gianfranco Ferroni e alla sua solitaria ed estrema riflessione su Johannes Vermeer, si riuniscono alcuni rigorosi e intransigenti filosofi che hanno scelto il linguaggio della pittura per dire il loro pensiero. E, dovendo definirsi in gruppo, come il secolo chiede, nel movimentismo che lo anima, trovano la formula che ne indica le affinità con l’esperienza più luminosa, breve e radicale: la Metafisica. Ora una mostra celebra i sette artisti che hanno animato la Metacosa a Viareggio, città dove alcuni di loro sono nati. A quasi mezzo secolo dall’esordio del gruppo, alla Galleria d’arte moderna e contemporanea, sono quindi esposte oltre un centinaio di opere: oltre a quelle di Gianfranco Ferroni (1927-2001), di Giuseppe Bartolini (1938), Giuseppe Biagi (1949), Bernardino Luino (1951), Sandro Luporini (1930), Lino Mannocci (1945-2022) e Giorgio Tonelli (1941).
Metafisica/Metacosa: un’idea felice, anche se forse non fortunata, ma ben corrispondente alla visione e al metodo che, almeno nella prima fase, ne distinguono i caratteri e l’ispirazione. Alla posizione assoluta, estremistica e ascetica di Ferroni si allineano, in termini più edulcorati, Luino e Luporini, che è pure tra le menti più salde per tenere tesa quella «rete dell’esistenza» contro il velleitarismo e il decorativismo, spesso, delle esperienze artistiche degli ultimi decenni, indifferenti al pensiero e alla pittura. E così come i futuristi, agli inizi del secolo, avevano trovato energia nella «città che sale», anche i pittori della Metacosa si erano ritrovati, tra delusione disperazione per il presente, a Milano, nell’ipogeo di Gianfranco Ferroni, in via Bellezza.
Metacosa diceva tutto: desiderio di rappresentare il reale e, nel contempo, di distanziarlo in un pensiero essenziale, anzi in una pura essenza. Questo è evidente soprattutto in Ferroni. C’è un elemento, forse meno pragmatico, che unisce questi resistenti del vero: il virtuosismo estremo, talora maniacale. Gianfranco Ferroni parte da suggestioni informali virate poi in un realismo esistenziale, per approdare, nella maturità, a una rappresentazione essenziale dell’esistente, fino a sfiorare l’estasi mistica. Ferroni cala nella realtà quotidiana la visione sublimata di Vermeer. Non gli basta Morandi. I suoi interni sono sacri, imbevuti di una luce ultraterrena. Ferroni è il primo ateo che approda a una concezione mistica, per una vera e propria consacrazione degli oggetti e dello spazio. Forse, per lui, l’archetipo resta lo spazio puro, nella luce, della Madonna di Senigallia di Piero Della Francesca. Così Ferroni si lascia alle spalle l’esperienza della prima Metacosa, quando le forme vibravano in un’aria persa e fragile, entro la quale si consuma il tempo migliore di Sandro Luporini, nell’aria viareggina, davanti al mare. La realtà, pur sublimata in «Metacosa», ha ancora un residuo iperrealistico in Giuseppe Bartolini che ci sorprende con gli effetti speciali delle sue carrozzerie, ammaccate da incidenti che ne trasformano le inquietanti carcasse. I paesaggi urbani, i fili elettrici, le ferrovie, sono i soggetti di una desolazione perfino consolatoria, al riparo del verde dell’orto botanico.
Bartolini non ha ceduto e, in fondo, neanche un altro innamorato di Ferroni, Bernardino Luino, che ne rappresenta la declinazione lirica, intimistica, soffusa. Luino si rifugia negli interni delle case dove c’è calore. Nei suoi spazi vuoti c’è consolazione, dove in Ferroni c’è desolazione. La luce filtra in quelle stanze morbidamente, carezza i pavimenti di cemento colorato, scalda le lenzuola di letti disordinati che hanno ancora il tepore dei corpi. Luino ha un’anima gentile. «Metacosa» per lui vuol dire rifugio, protezione, conforto. Abbiamo detto della declinazione di Luino. Osserviamo adesso quella, ortodossa fino a farsi tetragona, di Giorgio Tonelli, l’artista bresciano che trasferisce il reale in solidi geometrici, infrangibili, incorruttibili. Idee, anche ostili, respingenti. In tutti loro, comunque, il vero è subalterno all’essenza del vero. Vale anche per l’estremismo iperrealistico di Bartolini che, alla distanza, appare il meno datato. Una diversa strada sembrano percorrere invece Lino Mannocci e Giuseppe Biagi.
Il primo irrimediabilmente lirico, sentimentale, e perfino crepuscolare. Le sue «cose» sono cariche di tenerezza e affettuosità, come temi di affezione, verso i quali ripiegarsi con la memoria. Il più indipendente resta Biagi, con la nostalgia del narratore, e desideroso di configurarsi una tradizione personale che, aldilà del movimento, della resistenza, indichi una discendenza storica, nell’ordine delle premesse: De Chirico, Savinio, Morandi, Gnoli.