A Charlestown, nel cuore di Boston, si erge un obelisco. È il Bunker Hill Monument. Quasi trecento scalini più su si apre una vista senza pari su Beantown. La prima pietra, di quel lungo un po’ statico, fu posata dal marchese Lafayette dopo la battaglia fra britannici e coloni americani. Era il 17 giugno 1775. Albori della Rivoluzione.
Oltre due secoli dopo, nel 2008, un altro 17 giugno. I Celtics di Doc Rivers, al suono di “Beat LA!”, sotterrano gli odiati Lakers di 39 punti e conquistano il diciassettesimo titolo in quel Td Garden che dal Bunker Hill Monument dista un solo miglio.
Fast forward e lunedì notte, manco a dirlo un 17 giugno, i biancoverdi interrompono un digiuno lungo sedici anni regolando 4-1 i Dallas Mavericks e diventando la franchigia più vincente della lega, a quota 18 titoli.
Anche i numeri sanno essere speciali in una città speciale. Nel regno delle variabili in cui da anni ha trovato cittadinanza il basket Nba, Boston si è cementata intorno a una certezza. Un avverbio di sette lettere: insieme.
Nessun LeBron, nè Steph, nè Jovic, nè Embiid, nè Giannis, nè Luka hanno trovato casa lungo le sponde del Charles River. Quando dal supporting cast dei grandissimi è sbarcato Irving non è finita bene.
No, Boston ha vinto con altre armi. Il suo Mvp di queste Finals, Jaylen Brown, ama gli scacchi, a 22 anni era già il più giovane vicepresidente della storia del sindacato giocatori, e di recente qualcuno l’ha chiamato per un’offerta di lavoro. Non un general manager, la Nasa. Jrue Holiday, arrivato da gregario di lusso, a Milwaukee è rimpianto più di Fonzie. La stella dei verdi, Jayson Tatum, classe e seta, ha superato Kobe Bryant per punti segnati ai playoff, ma resta un’icona di bellezza, più che un closer. Derrick White, portatore di palla, difensore, tiratore, stoppatore.
Uno che al Garden probabilmente chiude anche le porte del palazzo prima di tornare, in silenzio, alla sua vita da atleta. Porzingis, che risponde presente con l’appuntamento già fissato in sala operatoria. O Horford, enciclopedia del gioco, piedi non più veloci, testa e applicazione insuperabili.
Eccoli qui, i Celtics campioni. Non con la magia di Doncic, o i canestri surreali del terrapiattista Irving. Con un (ex) carneade in panchina succeduto a quell’Udoka battezzato come l’erede designato di Doc Rivers. Solo che Ime ha pensato più alle donne, Joe Mazzulla a trascorrere le vacanze da un signore che di titoli, un filino, se ne intende: Pep Guardiola.
In cabina di regia, nell’anno magico di patron Pagliuca (i pianeti si erano già allineati nell’Europa League vinta dalla sua Atalanta), un altro coach che quel titolo, il diciottesimo, lo aveva a lungo cercato invano prima di trasformarsi in dirigente: Brad Stevens, prodotto di Butler University. Indiana, terra natale di Larry Bird, la leggenda col 33. Nulla accade per caso, nelle lande di Paul Revere.
La Boston dei Big Three chapter one (Bird, Parish, Mc Hale) and two (Pierce, Garnett e Ray Allen) ha lasciato spazio a una Squadra che è l’Mvp virtuale. Meno scintillante, più impregnata dell’essenza della città. Che fa fatica, si rialza anche dopo le bombe in una maratona e alla fine, se c’è un vessillo da issare, lo tira su insieme.
Se poi è il 17 giugno, ci riesce pure meglio.