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Argentina-Inghilterra, una rivincita senza colpi di cannone ma con la “mano de dios”

di Rock Reynolds

Il mio professore di storia del liceo aveva un’inusitata passione per le gesta della Royal Navy, la marina britannica, e non ne faceva mistero. Al punto che, quando si diffusero le prime notizie delle scaramucce diplomatiche e poi dei veri e propri scontri tra le forze armate argentine e quelle inglesi dopo l’occupazione delle isole Falkland da parte della giunta militare argentina in cerca di consensi in patria, trascinò l’intera classe, me compreso, in una sorta di tifo da stadio per una probabile vittoria inglese. Eppure, mi sarebbe bastato dare una rapida occhiata a una carta geografica dell’Atlantico per capire che quegli isolotti inospitali e quasi inabitati – che gli inglesi orgogliosamente avevano ribattezzato Falklands, ma gli argentini conoscevano come Malvinas – non erano ammantati della Union Jack più di quanto potessero esserli i fregi del frontone del Partenone ospitati presso il British Museum di Londra. Le sue esortazioni della serie, “La Royal Navy gli sta facendo vedere i sorci verdi” oppure, peggio ancora, “Gli inglesi spezzeranno le reni agli argentini” sapevano più di propaganda vetero-fascista che di quel progressismo di stampo socialista che professava a ogni piè spinto.

In quella breve e, tutto sommato, inutile guerra persero la vita quasi mille soldati (tre quarti dei quali argentini) e venne ripristinato l’ordine coloniale britannico. Si trattò, tutto sommato, di un maldestro tentativo di guadagnare nuova popolarità in Argentina da parte della sua giunta militare agonizzante, guidata dal generale Galtieri, e fu, al tempo stesso, l’ultima grande vetrina per l’intransigenza di Margaret Thatcher, nel suo periodo di massimo spolvero.

Che c’entra, dunque, uno stupido conflitto con una partita di calcio? Tantissimo, soprattutto perché Argentina-Inghilterra fu il quarto di finale della Coppa del Mondo disputatasi in Messico che incoronò una volta per tutte il genio di Diego Armando Maradona, assurto a ruolo di condottiero di un paese che da poco si era guadagnato la democrazia, anche grazie allo sfacelo della campagna militare delle Falklands.

La Partita – Argentina-Inghilterra 1986 (66THAND2ND, traduzione di Fabrizio Gabrielli, pagg 299, euro 18) di Andrés Burgo non è soltanto un libro per appassionati di calcio. Forse è solo suggestione, ma non si può fare a meno di pensare che Burgo debba aver tenuto ben presente la lezione di Osvaldo Soriano, argentino doc e cantore senza pari delle gesta dei grandi sportivi, soprattutto dell’epopea di un calcio già al tramonto in quegli anni. L’inevitabilità della riproposizione mediatica dello scontro militare che tanta sofferenza e tanto lutto aveva causato al popolo argentino, rafforzando al tempo stesso – se mai ce ne fosse stato bisogno – il senso di appartenenza patria di quello britannico, viene analizzato in profondità dall’autore, senza che si possa realmente giungere a una spiegazione chiara dei profondi sentimenti nazionali di cui tale partita si è caricata prima che venisse disputata e, ancor più, negli anni a seguire.

Argentina-Inghilterra di quel mondiale fu, non a caso, la partita del “gol più bello della storia”, il secondo segnato da Maradona, ma ancor più del gol segnato dalla “mano de dios”. Approfittando di un’uscita non brillantissima del portiere inglese Peter Shilton e rendendosi conto di non poter mai saltare più in alto delle sue braccia, Maradona si inventò il più classico dei colpi di mano, insaccando il pallone con un pugno abilmente nascosto dietro la propria testa. La zona d’ombra dentro cui realtà e narrazione fantasiosa si sfumano non ha mai smesso di crescere e l’assenza oggi quasi impensabile di testimonianze univoche riempie qualsiasi spazio vuoto di inventiva, corroborata da ricordi che si fanno via via più incerti. Pare, infatti, che Maradona non abbia mai detto che il primo gol lo avesse segnato l’Altissimo, ma, come gli sarebbe capitato spesso da quel momento in poi, si appropriò gioiosamente di tale invenzione giornalistica.

Con cura maniacale e vena a tratti poetica, Burgo racconta quella partita e i momenti precedenti e successivi in ogni loro possibile dettaglio. I riti scaramantici, l’acclimatamento all’alta quota di Città del Messico, la storia della maglietta azzurra che non c’era e che oggi sarebbe impensabile procurarsi in modo semi-amatoriale come accadde al tempo, creando i presupposti per una serie di macumbe a cui qualcuno è tuttora legato, oltre che valutazioni destinate a salire alle stelle nelle aste tenutesi negli anni seguenti. Eppure, nessuno dei giocatori aveva molta voglia di metterla eccessivamente sul piano della rivincita delle Falklands/Malvinas. In fondo, com’è giusto che sia, una partita è solo una partita. Forse per gli inglesi, ma per gli argentini, tuttora alla ricerca di una consacrazione come novella democrazia, la voglia di rivalsa quel giorno nel catino infernale dello stadio Azteca di Città del Messico fu quel qualcosa in più in grado di sfatare ogni mito. E il mito stava dalla loro parte perché il mito era Diego Armando Maradona. O meglio, lo sarebbe diventato al fischio finale, dopo aver segnato una rete epica, frutto della magia del momento e della forza inarrivabile di un talento e di una personalità incredibili.

Ne La Partita – Argentina-Inghilterra 1986 troverete di tutto, compresi i cibi consumati dalle squadre, le riflessioni che i giocatori facevano in campo e fuori dal campo, i passatempi per sopravvivere alla noia del ritiro, i ricordi dei vinti e dei vincitori. Il famoso gol di mano oggi, con le nuove tecnologie, verrebbe immediatamente annullato e, addirittura, Maradona si beccherebbe un’ammonizione, ma, nonostante la beffa e gli sberleffi più o meno diretti espressi da Diego nel post-partita, quasi tutti i giocatori inglesi – a parte, forse, Shilton, lo sfortunato portiere – restarono talmente irretiti dai dribbling ubriacanti di Diego e talmente colpiti dalla bellezza complessiva del suo gesto tecnico in occasione del secondo gol da perdonargli lo sfregio del primo e da togliersi il cappello di fronte alla sua incredibile prestazione. La sua seconda rete «è un’alchimia del calcio».

Qualcuno si ricorderà come, nel corso della sua turbolenta vita a carriera finita, Maradona abbia più volte dichiarato simpatie socialiste se non apertamente rivoluzionarie, al punto da ottenere asilo e cure mediche a Cuba nel periodo della dipendenza dalla cocaina. Va detto che Maradona abbracciò sempre, pur con qualche atteggiamento vagamente naif, la causa dei più deboli, dei diseredati. Si può obiettare che lo abbia fatto dall’alto della sua posizione di uomo ricco, famoso, idolatrato e privilegiato, ma non vanno scordati i suoi umili natali e il fatto che le sue scelte di campo gli abbiano attratto più fastidi che simpatie.

Per la cronaca, l’Argentina quella partita la vinse 2-1 e non si riprese le Malvinas. Questo libro è anche il racconto di come quella nazionale tutto sommato raffazzonata, che godeva di scarsissimi consensi all’esordio, si era qualificata per il rotto della cuffia e ruotava intorno a due leader diversissimi che si odiavano – il vecchio condottiero Passarella e il nuovo idolo delle folle Maradona – e alla contrapposizione tra lo stile pragmatico del nuovo allenatore Bilardo, pignolo e antipatico, e la vetusta poesia del bohémien Menotti, che aveva condotto l’Argentina alla prima storica Coppa del Mondo nel 1978, sotto la giunta militare di Videla, sia riuscita a sovvertire ogni pronostico. Forse, la nazionale che sconfisse l’Inghilterra per poi involarsi verso la vittoria della seconda Coppa del Mondo non vantava grandi nomi, eccezion fatta per Valdano, Burruchaga e Pumpido, però aveva un leader carismatico come Maradona, un calciatore capace di stregare il mondo e di vincere le partite quasi da solo, trasmettendo ai compagni un senso di squadra superiore al loro valore e trasformandoli in eroi transitori.

Dilatando i tempi come in un film d’essai, Burgo ricostruisce magistralmente il momento, sottolineando come i festeggiamenti per quella vittoria a Buenos Aires furono addirittura più entusiastici di quelli che avrebbero fatto seguito alla finalissima vinta contro la Germania.

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