L’uno ha 8 anni, l’altro ne ha quasi 16. Il più grande ha perso una gamba pochi giorni dopo l’inizio della guerra, il 17 ottobre, quando si era rifugiato in un ospedale vicino al suo villaggio nel Nord della Striscia, pensando che fosse un luogo sicuro. È stato bombardato, così come poi è toccato ad altri ospedali nel corso della guerra. Ha ancora in corpo alcune schegge: non c’era modo di estrarle in sicurezza.
Un missile inesploso invece è caduto vicino al piccolo il 10 marzo. Ha perso due dita del piede, ha riportato una frattura alla spalla e ha una ferita ancora aperta sulla schiena. Gli servirà un innesto di pelle per guarire.
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Sono queste le storie di due degli otto bambini e ragazzi usciti dall’inferno della guerra con alcuni famigliari, evacuati prima al Cairo e poi al Burlo di Trieste per ricevere cure e protesi. Sono arrivati all’aeroporto di Ronchi nella notte tra il 29 e il 30 aprile. Nella Striscia, dove manca tutto, dal cibo al materiale sanitario, rischiavano la vita per le infezioni, le malattie e la fame.
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Le loro mamme, Heba e Ghada, hanno raccontato la loro storia nella sala preghiera dell’Associazione culturale islamica di Trieste. Ringraziano dio per essere qui, ma continuano a pensare ai troppi piccoli feriti o malati a Gaza:
Sono molti di più delle cifre che circolano.
Ghada viveva con la famiglia nel Nord della Striscia, uno dei primi posti dove è arrivata l’invasione di terra israeliana. Ma prima dell’esercito sono arrivati il fosforo bianco e i bombardamenti.
Dormivamo con un pezzo di stoffa bagnata su naso e bocca.
Non è bastato.
Una mia figlia è rimasta intossicata, l’hanno salvata in ospedale.
Abitavamo al quarto piano. Quando cadevano i missili il palazzo oscillava.
Lo racconta in arabo: gesticola e fa intuire quel che dice prima che arrivi la traduzione.
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Parla dei boati terribili e della paura. Lei e la famiglia sono scappati da casa prima che fosse distrutta.
Mio figlio, mio marito e mia cognata sono andati a dormire in ospedale con tante altre famiglie, credevamo tutti fosse un posto sicuro. Invece è stato bombardato.
Mio figlio ha perso la gamba, tutti i suoi amici la vita.
È stato curato allo Shifa. «Aveva una forte emorragia all’addome per le schegge. Gli hanno fatto un’operazione che non è stata risolutiva. Speravano di salvargli la gamba, ma dopo sette giorni l’hanno amputata».
Poi è arrivato l’esercito. Sono scappati ancora. Un viaggio tremendo, a piedi, con un ragazzino ferito.
Abbiamo camminato per tre ore assieme a tantissime altre persone, spingendo la carrozzella. Eravamo terrorizzati, potevamo essere colpiti da un momento all’altro. Tanti sono morti attorno a noi.
Hanno vissuto nella zona di Rafah rifugiati in una scuola («È peggio che stare in un campo, dove almeno hai la tua tenda»), da novembre a fine marzo, quando sono riusciti ad andare in Egitto.
Fatico a trovare parole per spiegare la situazione.
Le ferite di mio figlio si sono infettate, è stato operato di nuovo ma mancava materiale sanitario.
Mia figlia ha avuto problemi al fegato.
I tre figli sono a Trieste con lei. Anche la bimba più piccola che sta «bene» ha due schegge in corpo. Il marito è a Gaza.
Attorno a noi solo morte e sangue dal 7 ottobre
Lo racconta Heba, che viene da Deir al-Balah, una zona più a sud della Striscia rispetto all’insediamento di Ghada. Heba era un’insegnante di matematica in una scuola Unrwa.
Ora non c’è più nulla, né lezioni né servizi.
Heba ha compiuto 39 anni a Trieste. Ma non ha festeggiato:
Mio marito e mio figlio di 18 anni sono ancora a Rafah, sono preoccupatissima. Non hanno il collegamento a internet, a volte devo aspettare giorni prima di poter sentire la loro voce.
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I miei genitori e le mie sorelle sono ancora a Deir al-Balah, dove c’è tantissima gente, venuta dal Nord e dal Sud, non c’è spazio nemmeno per camminare.
Si diffondono malattie, non c’è cibo, la situazione è tremenda.
Ma il figlio, 8 anni, avrebbe rischiato di morire se non avesse colto l’opportunità di uscire da Gaza.
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Le grida del momento in cui è caduto il missile che l’ha ferito sono state registrate per caso da una bambina. Aveva il cellulare in mano e per sbaglio ha fatto partire un video mentre si precipitava a vedere che cosa fosse successo. Lo fa vedere e racconta.
Poi aggiunge: «Non voglio ricordare quel giorno». E allora racconta che è stata una giornalista a Gaza con una Ong che li ha aiutati ad andare al Cairo e poi a Trieste. E ringrazia «per dare voce» alla loro storia.—
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