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Conti pubblici in gabbia



Rientro dal debito statale a tappe forzate e necessità di crescita, anche con una sfavorevole situazione economica. Il nuovo patto di stabilità europeo obbliga l’Italia a grossi sacrifici e imbriglia in rigide normative la possibilità di investimenti. E il conseguente sviluppo del Paese.

Ci fosse ancora Giulio Cesare direbbe: pacta iacta sunt. C’è da stabilire se «rispettare i patti» sia cosa buona e giusta. Di certo la Commissione europea uscente - e quasi certamente quella entrante - ci ricorderà anche che pacta sunt servanda. Purtroppo quello di stabilità è a lento, inesorabile rilascio. E potrebbe produrre già a giugno - a seconda di come andranno le elezioni continentali - una procedura d’infrazione a danno dell’Italia (e non solo) con multe stramilionarie per deficit e debito eccessivi. Perché il patto si definisce «nuovo», ma è molto simile al vecchio: rapporto deficit/Pil non superiore al 3 per cento e con un debito che supera il 60 per cento del Pil si va fuori legge. Giusto per memoria, il nostro sta al 138 per cento e si avvia a sfondare il tetto dei 2.900 miliardi. La Francia a dirla tutta è messa peggio come «traiettoria» e i belgi, i soli che si sono astenuti nell’ultimo Consiglio europeo, quello che ha dato il via libera definitivo, hanno già fatto i conti. Il nuovo patto di stabilità costa loro almeno sei miliardi l’anno. A noi, con una stima prudenziale, servono 13 miliardi in più. Ed è solo un pezzo del conto finale: le nuove regole rischiano di imporci manovre da 35 miliardi, soltanto per restare entro i parametri, senza contare gli interessi sul debito e la necessità di finanziare la crescita.

Perché? Perché la Germania non si fida degli altri partner. Le agenzie di rating, al contrario dei berlinesi che hanno un’idea cupa e solo quantitativa dell’economia europea, invece pensano che il debito italiano sia sostenibile. Standard & Poor’s ha lasciato immutata la valutazione della nostra solvibilità (con un «rating» tripla B e un outlook stabile); le altre agenzie Fitch e Moody’s si pronunceranno in questo mese, ma le previsioni pur modeste di crescita dovrebbero tenere immutati i giudizi. Il mercato peraltro continua ad acquistare con soddisfazione i nostri titoli come dimostra il successo del Btp Valore. Ha destato scalpore, due settimane fa che al parlamento di Strasburgo gli eurodeputati italiani - tranne tre - si siano astenuti sui nuovi trattati sulle finanze pubbliche. I pentastellati hanno detto no; da sponde opposte il centrodestra e il Pd hanno scelto di non votare. Atteggiamento sorprendente perché da una parte sta Giancarlo Giorgetti (e Giorgia Meloni) ministro dell’Economia che lo ha firmato, dall’altra sta Paolo Gentiloni (Pd) che da commissario europeo lo ha scritto. Magari senza troppo dolersene, visto che mette in gabbia i conti dell’Italia da qui alle prossime generazioni e sotto dettatura del ministro tedesco delle Finanze Christian W. Lindner, liberale ultrarigorista con enormi problemi di consenso in patria, del ministro dell’Economia di Berlino Robert Habeck verde e del vicepresidente della commissione Valdis Dombrovskis lituano - nazione che ha un Pil inferiore alla Lombardia.

Gentiloni peraltro commentando il voto ha chiosato amaro: «Be’ per una volta abbiamo unito la politica italiana». S’è detto: pesano le prossime elezioni. In ogni caso, il 29 aprile scorso, con l’ultimo atto - il consiglio Agrifish dei ministri agricoli - il governo ha pronunciato il suo «sì» definitivo al nuovo patto di stabilità. L’Italia con il suo assenso ha comprato tempo. E spera di mettersi al riparo dalla ratifica del Mes - il Meccanismo europeo di stabilità - che pure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella continua a caldeggiare avendo per compagni gli economisti di scuola Pd. Visto questo patto di stabilità, il «no» di Fdi e Lega ormai sembra una scelta di bandiera. Entro il 21 giugno Giancarlo Giorgetti dovrà recarsi a Bruxelles per spiegare come intende rientrare dal debito. E ha dei paletti ben precisi, imposti nottetempo da Christian Lindner.

La Commissione e i tedeschi hanno costruito attorno ai conti italiani (e non solo) una gabbia di ferro. A dimostrazione di questo ci sono le tecnicalità che impongono il rientro costante dell’1 per cento del debito (il vecchio patto prevedeva il rientro di un ventesimo del debito all’anno), un rapporto deficit/Pil costantemente al di sotto del 3 per cento, che diventa l’1,5 per gli Stati che superano il 90 per cento dal quarto anno di applicazione del patto di stabilità. Una specie di formula matematica racchiusa in un rebus. L’Italia è riuscita a strappare comunque tre anni di flessibilità (fino al 2027) nel programma di rientro nei parametri, perché si terrà conto dei maggiori interessi sul debito e degli investimenti verdi, digitali e militari. Ma tale flessibilità si paga con una minore libertà: tra poco più di 40 giorni il nostro Paese dovrà dire come intende aggiustare i conti ed entro il 20 settembre prossimo dovrà presentare alla commissione il suo piano pluriennale di spesa. Il tutto mentre potrebbe esser già scattata la procedura d’infrazione e partendo da un Def, il Documento di finanza pubblica, che è solo tendenziale. E ha due enormi ipoteche. La prima la iscrive sull’Italia Christine Lagarde, la presidente della Banca centrale europea. Se continua a tenere alti i tassi per l’Italia le condizioni diventano eccessivamente onerose. Già quest’anno il servizio del debito ci costerà 28 miliardi di euro in più (siamo vicini ai cento miliardi di interessi pagati). Seconda ipoteca, che preoccupa ancora di più, è la cosiddetta «traiettoria: si passerà infatti dal 3,8 per cento di incidenza degli interessi sul Pil al 4,4 per cento nel 2027.

La nuova formulazione prevede che la commissione, nel valutare la traiettoria di rientro dei Paesi ad alto debito, tenga conto della maggior spesa per interessi nel periodo 2025-2027. Tuttavia le tensioni sull’inflazione (pesano oltre all’aumento dei noli delle navi commerciali a causa dell’offensiva degli Houti, nel mar Rosso, le tasse sull’emissione di CO2 che l’Europa mette sui trasporti e la necessità per la Germania di rimpinguare il proprio sistema di banche regionali) rendono incerta la decisione sul taglio dei tassi da parte della Bce, che è attesa per giugno. Se il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta sostiene che i tempi sono maturi per ridurre i tassi, Isabel Schnabel (che siede nel board della Banca centrale europea per conto di Bundesbank) continua a predicare prudenza.

A conti fatti, il nostro bilancio statale dovrebbe puntare all’avanzo primario in ragione di almeno l’1 per cento del Pil. Peraltro da un ventennio l’Italia ha sempre avuto il più consistente attivo tra uscite ed entrate. Così la recentissima perorazione di Mario Draghi, incaricato di delineare una strategia sul futuro della competitività dell’industria Ue, di un debito comune per favorire potenti investimenti capaci di far recuperare produttività all’Europa è smentita in radice. Questo patto di stabilità è, si è detto, nuovo nella dizione ma antidiluviano nell’impostazione. Non tiene conto, come invece aveva promesso la commissione, delle diverse strutture economiche degli Stati membri, non converge su investimenti comuni salvo forse quelli militari (l’Italia dovrebbe mettere sul piatto una ventina di miliardi di euro), non contempla una fiscalità comune ma insiste su regole contabili uguali per tutti. Il risultato è un’Europa che non cresce e rischia anzi la deflazione. Dal 2000 (anno di entrata in vigore dell’euro), quando l’Europa cresceva più degli Stati Uniti, a oggi, il gap tra le due economie è impressionante. Gli Usa, fatto cento il Pil del 2000, hanno un Pil che corrisponde a 161, mentre l’Europa sta sotto il 130. L’economia americana è cresciuta a un ritmo doppio di quella dell’eurozona. Per questo Draghi, keynesianamente, predica debito buono per stimolare la crescita. E i tedeschi però rispondono con un’idea luterana: il debito è peccato. Peccato che così si finisca sul binario morto.

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