Sebastião Salgado non è solo un grande inarrivabile fotografo, ma anche un benefattore dell’umanità. Lo dimostrano il contenuto e la forma della rassegna dedicata all’Amazzonia e ai suoi abitanti allestita nell’ex pescheria centrale di Trieste.
Duecento e più fotografie schiacciano il visitatore alle proprie responsabilità e gli impongono di agire per ricostruire e salvaguardare il pianeta e il suo polmone verde sudamericano, le sue acque, i suoi fiumi, le tribù che vi risiedono.
Per lanciare il suo messaggio umanitario Sebastião Salgado e sua moglie Leila Wanik hanno costruito all’interno dell’enorme spazio espositivo un percorso che nobilita le immagini fotografiche e affianca a loro mappe e testi esplicativi.
I due autori hanno creato zone di penombra dove il bianco e nero delle fotografie di grande formato emerge con prepotenza, sollecitato dal fascio di luce di alcune centinaia di spot. Ogni immagine è ridefinita dalla luce di un faretto piazzato, come accade nei teatri, lontano dal soggetto cui da vita e forma. E il miracolo è compiuto.
«È la luce dell’Amazzonia» ha affermato Salgado mentre seguiva gli ultimi dettagli dell’allestimento. Con lui Roberto Koch, patron di “Contrasto”, la casa editrice che ha gestito la mostra a Roma, Milano e adesso a Trieste.
La luce dei 400 spot sottolinea i mezzi toni di grigio, le ombre sommesse e i neri profondi: il paesaggio viene “disegnato” così come i cieli con le loro immense nuvole, gravide d’acqua e i fiumi aerei, sospesi, che scorrono in alto tra gli alberi originando un fenomeno naturale mai visto o ripreso con un obiettivo.
Ma non basta. I ritratti dei capi tribù amazzonici con i quali l’autore ha vissuto a lungo e ha parlato nel corso di sette anni - tanti ne sono stati necessari per completare questo reportage - ci riportano agli albori dell’umanità, a un periodo lontano almeno diecimila e più anni in cui l’uomo viveva come essi vivono.
Lavorano la terra, cacciano, si spostano in nuovi territori quando capiscono che quelli che hanno occupato fino a quel momento stanno diventando meno fertili e hanno bisogno di una pausa di riposo.
«Queste tribù sono di origine asiatica, hanno superato lo stretto di Bering quando l’Alaska e la parte estrema della Siberia erano unite. Poi sono scese, sempre a piedi, a piccole tappe, spostandosi verso Sud e hanno raggiunto l’Amazzonia» afferma Sebastião Salgadoo Salgado.
«Conoscono la natura e le sue risorse: prima erano raccoglitori, poi sono diventati agricoltori e hanno tratto delle piante il loro sostentamento ma anche sostanze antinfiammatorie e antibiotiche.
Sono riusciti a determinare persino il movimento giroscopico delle frecce: osservandone la traiettoria sono in grado di correggere eventuali difformità nella costruzione».
Per ricostruire quella parte di territorio amazzonico devastato dalla deforestazione Salgado ha piantato tre milioni di alberi attorno alla fattoria di famiglia.
«Lo ho fatto senza chiedere un soldo di denaro pubblico brasiliano. E la cooperazione internazionale ha capito e partecipa a questo progetto».
A chi gli chiede se l’immenso polmone verde sudamericano - grazie a questo intervento finanziario - sta correndo il rischio di subire l’attenzione del turismo d’elite come accade ai territori ghiacciati che circondano il Continente antartico, Salgado risponde che il rischio oggi non esiste.
In primo luogo perché per accedere ai territori amazzonici è necessario essere in possesso di specifiche autorizzazioni governative che si ottengono dopo una serie di vaccinazioni e dopo le quali è obbligatorio sottoporsi a una quarantena di almeno dieci giorni.
Tutto questo per evitare l’introduzione nelle tribù di nuovi virus che potrebbero risultare letali per le popolazioni indigene. Inoltre non esistono strutture in grado di accogliere eventuali visitatori.
Si dorme tutti in amache, non esistano strade, ci si sposta in canoa lungo fiumi immensi e piccoli corsi d’acqua, l’umidità è costante, prossima al 100 per cento.
La pioggia, i fiumi, i temporali, le gocce d’acqua che cadono dai rami, il movimenti degli animali, costituiscono in tutta l’Amazzonia un sottofondo di suoni che è stato “campionato” dal Museo etnografico di Ginevra e usato dal musicista Jean - Michel Jarre per costruire la colonna sonora della mostra di Sebastiao Salgado.
E nel salone della pescheria i visitatori saranno immersi in questo flusso di note. »Volevo evitare l’approccio etnomusicologico e non intendevo creare una musica di sottofondo - ha spiegato il compositore - così ho usato elementi musicali orchestrali ed elettronici destinati a ricreare ed evocare i suoni naturali; e a questi ho poi aggiunto i suoni provenienti dall’ambiente amazzonico.
E’ stato necessario partire dalla casualità degli avvenimenti della foresta che possono comporre un’armonia o una dissonanza. Quiete e tensione si susseguono».
La mostra aprirà i battenti giovedì 29 e occuperà l’intera stagione primaverile ed estiva. Chiusura prevista in ottobre in concomitanza con la Barcolana.
Gli organizzatori si ripromettono di portare a Trieste un pubblico molto vasto che spazia dal Friuli, al Veneto, alla Carinzia, all’Istria e alla Slovenia. —