Questo è un articolo dedicato al Barbone Ignoto. Questo è un articolo dedicato a chi non lo leggerà mai. Ma forse questo è un articolo dedicato soprattutto a ognuno di noi. Quando ho letto che a Pavia è stato trovato il corpo di un barbone morto dieci anni fa, e che per dieci anni nessuno aveva denunciato la sua scomparsa, ho pensato che forse sarebbe giusto seppellirlo così. Senza nome. Senza età. Senza riconoscimenti. Ho pensato che sarebbe giusto erigergli un piccolo monumento. Il monumento, appunto, al Barbone Ignoto.
C’è una fiamma che arde sempre per il Milite Ignoto, patrio rappresentante di chi è morto nella guerra di trincea. Ci dev’essere una fiamma che arda sempre anche per il Barbone Ignote, patrio rappresentante di chi è morto nella guerra dell’indifferenza. Ucciso da un mondo dove le relazioni sociali sono state sostituite da un tweet, dove lo sguardo verso gli altri viene interrotto sempre dallo schermo del proprio telefonino. Dove non si ascoltano le parole altrui, ma solo la suoneria dell’ultimo messaggio in chat. Perché morire sotto i colpi dell’artiglieria è drammatico. Morire sotto i colpi del nulla ancora di più.
Non so chi fosse il Barbone Ignoto. Non so nemmeno se si saprà mai. È stato trovato durante i lavori di ristrutturazione di quella che una volta era una palestra. L’edificio era rimasto a lungo disabitato, forse il clochard ha trovato rifugio lì. È stata disposta l’autopsia, ma secondo le prime analisi il decesso risale, per l’appunto, ad almeno dieci anni fa. Se non si fosse aperto un nuovo cantiere forse quel corpo sarebbe rimasto lì per altri dieci anni. O forse di più.
E io non posso fare a meno di chiedermi come sia possibile che una persona sparisca per dieci anni senza che nessuno, ma proprio nessuno, ne senta la mancanza. Non un fratello, non un figlio, non un cugino, non uno zio o una zia, non un ex collega, non un amico d’infanzia, non un amico di strada, non un altro barbone, non un volontario, non un passante, non un vigile urbano, non un messo comunale, non un ufficiale dell’anagrafe, non un esattore delle imposte, non un parroco o un buon samaritano. Nessuno. Proprio nessuno. Significa che questa persona non aveva rapporti con nessuno? O che i rapporti erano così insignificanti che nessuno ne ha sentito la mancanza?
Lo so che molti desiderano scomparire. Far perdere le proprie tracce. Lo so che la vita di strada per alcuni è una scelta che trancia di netto il passato. Ma come è possibile che un filo di questo passato non resti avviluppato dentro il presente? Com’è possibile che non resti traccia da nessuna parte di quello che si è stati? Delle persone frequentate? Delle amicizie consumate? Delle parole spese? Delle speranze perdute? Delle cose fatte e di quelle sbagliate? Come è possibile seppellire un’intera vita dentro un palazzo abbandonato senza che rimanga nemmeno una briciola di memoria? Senza un frammento di ricordo? Senza che nessuno, nemmeno una volta, in dieci anni, senta il bisogno di chiedersi: chissà dove è finito quell’uomo?
Ecco: dal momento in cui ho letto quella notizia non riesco a togliermi dalla testa questa domanda. Come si può essere uomini se nessun uomo si ricorda di te? Come si può vivere se la vita è una sequenza di sé stessi, ripetuti all’infinito, senza neppure una finestrella sul resto del mondo? Io non so se il Barbone Ignoto voleva davvero isolarsi. Non so se l’ha scelto o se ci è stato costretto. Non so se era giovane o anziano, se era alto o basso, se si ubriacava o si drogava o semplicemente se odiava la società. Non se era italiano o straniero, grasso o magro, se viveva a Pavia da tanto o arrivato. Non so se il suo sacco a pelo, unico compagno di vita, era sufficiente a scaldargli le notti oppure no. Ma so che per dieci anni nessuno ha chiesto di lui. E che per altri dieci anni, o forse per sempre, nessuno avrebbe chiesto di lui, se il suo corpo ormai straziato non fosse stato d’intralcio per i lavori di un cantiere.
E per questo penso che la sua storia dica molto anche a noi. Perché sempre più spesso pensiamo di farcela da soli. Sempre più spesso speriamo di bastare a noi stessi. Sempre più spesso pensiamo che gli altri siano un peso, soprattutto quando escono da quei telefonini e si palesano come persone in carne ossa, inevitabilmente piene di difetti. E siamo portati, da una società che spezza le relazioni, a diventare sempre più concentrati su noi stessi, dimenticando che la vera nostra forza non siamo noi ma sono gli altri. Non è quello che possiamo fare ma le persone che possiamo incontrare. E che si preoccupano per noi quando non ci vedono non per dieci anni, ma anche solo per dieci minuti...