Domenica al Teatro Verdi il secondo incontro del ciclo “La forza delle idee” per la rassegna promossa dagli Editori Laterza. Conferenza di Amedeo Feniello, docente di Storia medievale
TRIESTE. Studioso rigorosissimo, autore di un pensiero complesso che si irradiò nei movimenti millenaristici nati a metà del Duecento ponendolo al tempo stesso in odor di eresia. Il calabrese Gioacchino da Fiore visse da eremita nei monasteri sulla Sila ma fu in grado di affascinare i potenti del tempo, tanto che Dante, un centinaio di anni dopo la sua morte, lo inserì nella Commedia. Di Gioacchino da Fiore parlerà domenica al Teatro Verdi di Trieste, alle 11, nella seconda delle Lezioni di storia del ciclo dedicato a ‘La forza delle idee’, il professor Amedeo Feniello, docente di Storia medievale al Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila, presentato dal giornalista de “Il Piccolo” Roberto Covaz. Le Lezioni di Storia, ideate dagli Editori Laterza, sono promosse dal Comune di Trieste, organizzate con il contributo della Fondazione CRTrieste e il sostegno di Trieste Trasporti. “Il Piccolo” è media partner dell’iniziativa.
Perché occuparsi di questo teologo medievale?
«Perché - risponde Faniello - dietro il pensiero di Gioacchino da Fiore, così complesso, pastoso, tanto difficile da afferrare che alcuni suoi discepoli hanno cercato di riassumere attraverso disegni, radicato nel cristianesimo ma rielaborato ed esaltato, c’è una discussione che coinvolge tutta la società medievale: il concetto di tempo».
Provi a spiegarlo.
«Noi definiamo il tempo secondo gli strumenti, per lui tutto viene assorbito dalla grande idea trinitaria per cui la storia è divisa in tre tempi lungo un percorso che va da Adamo e passa, come se fossero altrettante tappe della Storia, per l’incarnazione di Cristo e lo spirito santo. Il momento interessante della sua lettura riguarda l’Apocalisse, che lui interpreta non come descrizione del mondo che verrà, ma come descrizione dei tempi del mondo. Le varie parti dell’Apocalisse non sono nient’altro che una raffigurazione di quella che è stata la Storia, non solo di quello che verrà».
Gioacchino conduceva una vita anonima, quand’è che la gente comincia a considerarlo un profeta?
«Intanto diciamo che lui non si considerava un profeta ma un esegeta che studia accuratamente tutte le fonti cristiane con attenzione al rapporto tra antico e nuovo testamento. È il mondo in fibrillazione del Duecento ad appropriarsi del pensiero di Gioacchino da Fiore. L’onda lunga del suo pensiero investe il monachesimo rivoluzionario, quei gruppi che si creano nel corso del tumultuoso Duecento e che hanno una prospettiva evangelica».
La dimensione millenaristica?
«L’idea dell’anno Mille non appartiene agli uomini dell’anno Mille. Il millenarismo è un elemento centrale del pensiero cristiano medievale successivo che si diffonde nel corso del Duecento e del Trecento tra quei gruppi che oscillano tra obbedienza alla Chiesa e una sponda eretica. All’interno di queste congregazioni si raccolgono i frutti espressi dal pensiero gioachinita, che vengono rielaborati nell’attesa dell’avverarsi del vangelo sulla terra. Una delle conseguenze di questo pensiero, che prevede ad esempio anche la riappropriazione dei beni, è il nascere di una corrente che nel corso dei secoli animerà carsicamente tutte le grandi rivolte e i pensieri rivoluzionari».
In questo senso si può considerare il marxismo come un pensiero millenaristico?
«Il marxismo è il figlio peggiore del cristianesimo. È la costruzione di una chiesa laica che prevede la costruzione di un tempo migliore nel futuro. In questo caso non parliamo dello spirito santo ma dell’eguaglianza della proprietà, ma la spinta spirituale è la stessa».
Tornando a Gioacchino da Fiore, nonostante sia un eremita ha grande successo tra i potenti del tempo.
«Perché è un personaggio di grande carisma di cui tutti avvertono la forza spirituale. Se si esamina con chiarezza la sua vita, ci troviamo di fronte a un erudito con un’idea particolare della storia. Così particolare da contraddire il pensiero di Sant’Agostino. Inevitabile allora che la Chiesa, nel corso del IV concilio laterano del 1215, stigmatizzi le sue idee».
Finisce per essere considerato un eretico?
«Sì, e nel momento in cui la chiesa lo mette ai margini inizia la decadenza delle congregazioni che a lui si erano ispirate. Però il fascino delle sue teorie, espressione di un pensiero enigmatico, continua a sollecitare i posteri, tanto che i due personaggi del Medioevo su cui si è scritto di più sono Dante e Gioacchino».
Dante lo mette nel Paradiso.
«Tutti rilevano la sua originale lettura del tempo interpretata in un’ottica cristiana, che è la grande chiave di lettura della realtà per l’uomo medievale».
Gioacchino nasce in un paesino della Sila, e dalla Calabria si sposta raramente, eppure diventa famoso.
«Non dobbiamo pensare alla Calabria come a un regione periferica, tutt’altro. Fino al secolo precedente la nascita di Gioacchino, quindi intorno al Mille, la Calabria è un mondo bizantino e grecofono, con grandi monasteri ricchissimi di codici, in cui la acculturazione normanna si era assimilata dolcemente e non mancavano le possibilità per studiare e per leggere».
Nel 2001 è stato avviato uno studio per la sua causa di beatificazione.
«Se la merita. Ha speso tutta la vita a creare un ordine e a stabilire i parametri per capire il tempo del cristiano».
