Giulia, massacrata dall’ex fidanzato. Etleva, strangolata dal marito. Concetta, accoltellata dall’ex marito. L’elenco riempirebbe questa pagina: in un anno sono state uccise più di 100 donne, 87 da un familiare. Nella maggior parte dei casi (oltre il 90%) il partner, o l’ex. Lo dice il Report della Direzione centrale polizia criminale, aggiornato al 19 novembre. Ma non c’è soltanto questo: in Italia crescono violenze, maltrattamenti, atti persecutori. I reati spia. I dati mantovani sono in linea con questa tendenza? «I dati di Mantova su maltrattamenti e violenza di genere rispecchiano quelli nazionali, che evidenziano un incremento dei reati spia negli ultimi dieci anni - risponde Giannina Roatta, da quasi due anni questore di Mantova - La violenza sessuale, per esempio, è aumentata del 40%». L’anno scorso, a Mantova, la polizia di Stato è intervenuta in 48 casi da “codice rosso” e ha adottato 16 provvedimenti di ammonimento. Quest’anno? «Non abbiamo ancora i dati definitivi, ma già nei primi dieci mesi del 2023 abbiamo notato una crescita dei codici rossi del 30% rispetto all’intero 2022. E, più in generale, è aumentata la litigiosità. Facciamo almeno un intervento al giorno, spesso per liti in famiglia». L’aumento della violenza è testimoniato anche dai numeri delle donne accolte nei centri anti-violenza. Le donne aiutate nei primi sei mesi del 2023 (221) si avvicinano al dato di tutto il 2022 (245). Significa anche che le donne denunciano di più? «Negli ultimi anni le donne hanno sicuramente acquisito maggiore consapevolezza. Le denunce sono aumentate. È anche vero, però, che il dato che abbiamo è ancora la punta dell’iceberg: c’è ancora tanto sommerso. Ed è un fenomeno che interessa tutti: come dimostrano anche le cronache più recenti, non fa distinzioni di latitudini, ceto sociale, età anagrafica, istruzione». Il codice rosso, che modifica la disciplina penale e processuale nei reati di genere, è sufficiente? Ci sono lacune? «L’intervento tempestivo è fondamentale e il codice rosso è nato proprio per questo: avviare in tempi rapidi il procedimento. Negli ultimi quindici anni è stato fatto davvero tanto. La normativa c’è, anche se, ovviamente, tutto si può affinare. Quando, però, parliamo di codice rosso, di denuncia o di ammonimento, significa che i reati sono già stati perpetrati, siamo alla fase repressiva. Dobbiamo, invece, prevenire, e dobbiamo farlo con la cultura». In un’intervista di pochi giorni fa, il presidente vicario del tribunale di Milano, anticipando i dati milanesi della procura, ha detto che il 40% dei reati di stalking, maltrattamenti e violenza sessuale è stato commesso, nel 2023, da giovani tra i 18 e i 35 anni. Le risulta questa tendenza? «Sì, l’età si è molto abbassata. Questo è un dato rilevante e molto indicativo. Significa che la cultura del possesso è difficile da scardinare. Per questo bisogna cominciare a lavorare in età prescolare, per fare capire l’importanza del rapporto egualitario con l’altro sesso e del rispetto dell’altro. Perché poi, crescendo, se non ci sono paletti i limiti diventano evanescenti». Anche la scuola può avere un ruolo? «Certo, noi stessi abbiamo fatto iniziative di sensibilizzazione con i ragazzi. L’ultimo aveva come tema chiave il concetto di amore e di “non amore”. Dai ragazzi sono uscite cose molto interessanti, con una visione completamente diversa dall’immaginario collettivo». Tra i progetti della Polizia di Stato c’è anche il protocollo Zeus. Di cosa si tratta? «È un modo per aggredire il problema a 360 gradi. Bisogna prima di tutto tutelare e supportare la vittima: questo, nella nostra provincia, avviene anche grazie alla rete con i centri anti violenza e i servizi sociali. Poi, però, bisogna lavorare sul maltrattante. Alla donna vengono forniti più strumenti. Quando non si tratta di reati perseguibili d’ufficio, può scegliere se avviare un processo penale tramite una denuncia oppure chiedere al questore l’ammonimento. In quest’ultimo caso, il questore indirizza l’uomo a un centro, solitamente multidisciplinare, che lo prende in carico in un percorso di consapevolezza dell’alto disvalore sociale di ciò che ha compiuto. L’obiettivo è evitare la recidiva». Nel Mantovano sono tanti gli uomini che aderiscono? «In generale, e Mantova non fa eccezione, sono pochissimi gli uomini che seguono questi percorsi. E un numero limitato li porta a termine». Potrebbe essere utile renderli obbligatori? «Potrebbe servire, ma comunque la persona deve compiere un proprio percorso interiore». Le battaglie delle donne delle generazioni passate non sono servite? «Non dico questo, ma permane una concezione della famiglia patriarcale da scardinare, e su questo devono lavorare molto anche gli uomini». Cosa si sente di dire a una donna o a una ragazza che nota i primi segnali di prevaricazione? «Di fare attenzione. Quando una relazione malata finisce, non ha senso cercare di ricomporre i cocci. L’ultimo episodio ha avuto, e giustamente, un’ondata emotiva fortissima. Temo, però, che tra dieci giorni non ci si ricorderà più dei rischi. Invece bisogna tenere alta l’attenzione e chiedere aiuto. Farlo non è una debolezza. Le donne non abbiano paura di chiamare il 112, di venire da noi anche solo per un consiglio». E a chi fosse testimone delle prime avvisaglie? «Stessa cosa. Se nell’appartamento vicino al vostro sentite litigare, qualcosa sta succedendo. Non voltatevi dall’altra parte. Non siete dei delatori, siete persone che possono salvare una vita». La cultura del rispetto manca soltanto nei rapporti di genere? «No, manca in generale. C’è molta aggressività. Noi interveniamo quotidianamente anche su liti generate da problemi banali, come il traffico». Mantova può essere considerata una provincia sicura? «È relativamente tranquilla, anche se le isole felici non esistono più. Non bisogna, però guardare soltanto il numero dei reati. Occorre lavorare sul senso di percezione della sicurezza, che può dipendere da fattori diversi come il degrado di alcune aree cittadine o da situazioni di precarietà. È importante la presenza sul territorio delle forse dell’ordine e la prossimità ai cittadini. Mi riferisco, per esempio, agli interventi con le persone anziane per prevenire i reati di truffa. Oppure, più semplicemente, all’ascolto: alla sala operativa, di sera o di notte, arrivano telefonate di persone che segnalano furti che poi si rivelano inesistenti. Chiamano per sentirsi rassicurati». I mantovani collaborano con le forze dell’ordine? «Sì, lo fanno. Sono le nostre sentinelle sul territorio. A volte ci tirano per la giacca, ma ci danno informazioni utili». Ci sono abbastanza agenti? «Chiunque direbbe che con qualche numero in più si farebbe meglio. Posso soltanto dire che ci impegniamo tutti al massimo». Ci sono zone della città che destano più preoccupazione? «Ci sono obiettivi più sensibili, come i parchi pubblici, che soprattutto all’imbrunire danno una sensazione di insicurezza e sui quali insistiamo con le nostre operazioni di controllo, anche grazie alla collaborazione con la Polizia locale, con i carabinieri e Guardia di finanza. Ma, ribadisco, Mantova rimane una città vivibile». Sono aumentati gli episodi di micro-criminalità? «Sì, ma la chiamerei criminalità diffusa, perché per chi la subisce è tutt’altro che micro. Anche un piccolo furto è una violazione. C’è un leggero aumento dei furti in abitazione, anche se i numeri rimangono inferiori al pre-covid». In alcune aree del capoluogo e in altri grossi centri vengono segnalati piccoli reati commessi da gruppi di ragazzini. Definirli baby gang è azzardato? «Le baby gang sono qualcosa di strutturato ed esistono nella città metropolitane. Hanno una gerarchia e la loro finalità è delinquere. Per Mantova parlerei piuttosto di bande di ragazzi che, in via occasionale, delinquono insieme. I reati commessi da minori sono aumentati. Ed è, anche questo, un fenomeno trasversale, che coinvolge ragazze e ragazzi, di seconda o terza generazione e non». — Sabrina Pinardi