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L’inchiesta. La provincia di Treviso del 2042 avrà cancellato 35 mila giovani. «Patria degli over 75»

L’inchiesta. La provincia di Treviso del 2042 avrà cancellato 35 mila giovani. «Patria degli over 75»

Crolla il numero degli under 25. Il professor Marini: «Come faranno le imprese a vincere la sfida dell’innovazione?». Abbiamo chiesto al più noto statista italiano come fermare la denatalità. Ecco le risposte

Vent’anni di “inverno demografico”. Con conseguenze potenzialmente devastanti su economia, sanità, istruzione. Per le aziende, la lotta alla denatalità è “la” priorità: una provincia che già oggi non trova il 60% dei lavoratori di cui ha bisogno non può permettersi un futuro in cui aumenteranno gli over 75 a fronte della ritirata degli under 25. Eppure è proprio questa la Marca del 2042 secondo le proiezioni dell’Istat.

I numeri nel dettaglio

Una provincia in cui le culle vuote saranno il problema minore, visto che il calo delle nascite - costante dal 2007 - è destinato ad arrestarsi. Troppo poco, troppo tardi: nel 2042, segnala l’Istat, la provincia di Treviso avrà 35.435 giovani in meno rispetto a oggi e 53.372 anziani in più.

La fotografia del 2023 mostra una provincia di circa 875 mila abitanti, in cui i giovani con meno di 25 anni sono il 23,5 per cento del totale, e le persone con più di 75 anni l’11,89 per cento. Guardiamo la Marca del 2042: gli under 25 crollano al 19,5 per cento della popolazione, gli over 75 salgono al 18,12. In controtendenza la fascia 0-4 anni, che dopo anni di stagnazione dovrebbe tornare a crescere. E però: i bambini fino ai dieci anni saranno poco più di 68 mila, gli anziani con più di ottanta saranno 95 mila.

Economia al centro

L’inverno demografico non è un’esclusiva della Marca, ma più di altre province la Marca, con la sua galassia di piccole e medie imprese, potrebbe soffrirne dal punto di vista della crescita economica.

«Questa carenza di giovani generazioni si scontra con il progressivo processo di digitalizzazione delle nostre imprese» spiega infatti il professor Daniele Marini, direttore scientifico di Community Research&Analysis.

«Le innovazioni tecnologiche pervadono tutto il nostro tessuto economico, ma ci ritroviamo con una popolazione lavorativa progressivamente invecchiata, con meno giovani che entrano in azienda. Le innovazioni impattano con una cultura del lavoro e una preparazione tecnica antecedente a questi fenomeni».

Una soluzione rapida non esiste: «Il tema è molto complesso, ce ne accorgiamo ora ma dovevamo muoverci già dagli anni Ottanta. È come un’onda: prima di bloccarla ci vorranno decenni.

Le imprese si troveranno a dover gestire non solo la carenza di giovani, ma anche il fatto di dover pensare alla riconversione dei profili professionali ad oggi esistenti. Oltre al fatto che comunque rimane un forte bisogno di manodopera. Ci vogliono decenni per formare un lavoratore: nel frattempo cosa facciamo?».

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L’impatto sociale

Una provincia in cui gli over 75 passeranno, in vent’anni, da 104 a 157 mila dovrà ripensare a fondo il suo assetto sociale. Ospedali, case di riposo, assistenza. «L’esperienza internazionale - aggiunge Marini - ci fa vedere che i figli si riprendono a fare se sul territorio esistono una serie di servizi utili alle famiglie.

Le nostre giovani generazioni, inoltre dovranno affrontare anche un diverso approccio verso la terza età dei genitori, che avranno una vita più lunga.

Servono servizi per i figli e un sistema socio-sanitario in grado di sostenere le persone anziane.

Il carico sociale per le giovani coppie oggi è molto più pesante rispetto a quello delle giovani coppie di un tempo, quando i figli erano di più e i genitori vivevano meno. Negli anni sessanta mediamente ogni famiglia aveva tre figli, tre persone che potevano affrontare insieme la gestione di un genitore anziano. Un’incombenza che oggi è spesso sulle spalle di un singolo individuo».

Andrea De Polo

***

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L’INTERVISTA

Blangiardo: «Imprese e privati, ora tocca a voi»

Parlare di denatalità significa affrontare anche temi di economia, scuola, sanità, compreso il ruolo decisivo delle aziende. Perché si tratta di un fenomeno i cui effetti, a cascata, colpiranno in modo pregnante tutti gli ambiti della società. A confermarlo il professor Gian Carlo Blangiardo, statistico italiano, presidente dell’Istat dal 2019 al 22 marzo 2023.

La denatalità, quindi, non è solo una faccenda demografica…

«La denatalità è una questione che riguarda le persone, il capitale umano. Questo significa che se non c’è la formazione intesa come nuovi nati, a risentirne poi saranno anche la scuola, il mercato del lavoro e la produttività».

Perché oggi nascono pochi bambini?

«Non solo perché si fanno meno figli per vari motivi, ma perché ci sono meno mamme perché tanti anni fa nascevano meno bambine, che sono le potenziali mamme di oggi. Quindi i cambiamenti della natalità esercitano conseguenze di varia natura sul sistema economico, ma anche sulla capacità della popolazione di garantire la propria riproduzione».

Quando è partita la curva discendente nelle nascite?

«Nel 1964 c’è stato il picco con 1 milione e 35 mila nati, poi dopo qualche anno hanno cominciato a scendere, finché a metà degli anni ‘70 c’è stato un crollo verticale e siamo arrivati alle 600 mila nascite degli anni ’80 e ’90.

C’è stata poi una modestissima ripresa all’inizio del nuovo secolo, legata ai ricongiungimenti familiari per le regolarizzazioni degli stranieri con conseguenti nascite, per esempio nel 2012 ci sono state 80 mila nascite straniere.

Il crollo ulteriore c’è stato dal 2008 con 577 mila nati. Da allora siamo scesi ai 393 mila. Dal 2008 al 2022 abbiamo perso 184 mila nati. I primi 7 mesi del ’23 confrontati con i primi mesi 22 sotto del 2,4% e quindi stimiamo che a fine anno saremo sotto di altre 5/6mila rispetto all’anno scorso».

Cosa possiamo aspettarci dal futuro?

«O si accresce il numero di figli per donna, oppure il totale dei bambini che nascono difficilmente verrà mantenuto anche ai livelli di oggi, che sono già drammatici».

È realistico il fatto che cresca il numero di figli per donna?

«Diciamo che bisognerebbe lavorare perché succeda. Per esempio ora c’è maggiore consapevolezza del problema da parte della politica e della società. Non è un caso che il governo abbia cercato di favorire soprattutto il passaggio da uno a due figli. Questo non vuol dire costringere la gente a fare figli a tutti i costi, ma far sì di eliminare le cause che spingono a rimandare».

Quali sono queste cause?

«Sono le tre C. Il costo, i figli costano. La cura, come per esempio gli asili nido, che in Italia non sempre ci sono. E la terza riguarda la capacità, ovvero offrire alle mamme la possibilità di essere madri, ma anche lavoratrici con una carriera che va secondo la propria propensione. Questi tre aspetti vanno coltivati altrimenti generano processi di rinvio che rischiano di diventare rinuncia».

E il rinvio presuppone anche una maggiore difficoltà nel concepire. Giusto?

«Esatto, c’è anche un problema tecnico. Fare un figlio a 45 anni non è come farlo a 25 anni, quando basta desiderarlo e arriva. A 45 anni devo avere anche l’apparato per realizzare questo desiderio e purtroppo la fisiologia esercita i suoi effetti».

Quanto la ricchezza influenza la natalità?

«Sicuramente ha una certa influenza, perché un territorio ricco dispone anche di più strutture come asili nido, ma permette anche di poter mantenere un figlio, che è un costo. Ma non è tutto, concorre anche un elemento di cultura e di consapevolezza dell’importanza di questi problemi».

Lei ha analizzato le varie zone d’Italia, quali sono le peculiarità della nostra zona?

«Non sempre un luogo dove c’è ricchezza e benessere è sinonimo di elevata natalità. Anzi. Nel Nordest si dovrebbe tendere all’esempio virtuoso di Bolzano, che è l’eccellenza per la natalità.

Diversamente da tutto il resto d’Italia, dove la media è di 1,2 figli per donna, Bolzano arriva a 1,7. Oltre alla disponibilità di ricchezza, c’è un coinvolgimento maggiore sia dell’ente pubblico, cioè la Provincia, sia del privato che è più sensibile a realizzare dei processi di conciliazione lavoro-famiglia».

Quindi dovrebbe esserci una co-partecipazione?

«Siamo arrivati al punto in cui tutti devono rimboccarsi le maniche. Non è solo lo Stato, ma anche il privato sociale, le amministrazioni locali, le imprese, che potrebbero giocare un ruolo determinante. Quanto si potrebbe realizzare con un welfare aziendale a misura di famiglia?».

Potrebbe essere questa la soluzione per un territorio come il nostro caratterizzato da una galassia di aziende produttrici?

«Certo e le aziende più virtuose potrebbero così entrare nella storia perché l’imprenditore che fa una cosa buona poi viene riconosciuto». —

Lorenza Raffaello

***

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IL CONFRONTO

L’inverno di Fregona. La primavera di Ormelle

A fronte di una media dell’Unione Europea di 9,1 nascite ogni mille abitanti nel biennio 2020-21, in Italia la quota si è fermata a 6,8.

Questo dato oltretutto non è altro che una media, di cui l’analisi a livello locale restituisce un quadro diversificato.

Secondo l’indagine diffusa pochi giorni fa da Openpolis, circa il 90% dei comuni non raggiunge la media Ue e quasi il 60% di essi si attesta anche al di sotto del dato italiano.

La provincia di Treviso ovviamente non fa eccezione.

I comuni con le performance peggiori sono piccoli centri della fascia pedemontana.

Ecco quindi i numeri: nel biennio 2020-2021 il numero più basso di nascite ogni mille abitanti spetta a Fregona (4,59, a fronte di una media europea del 9,1), seguito da Cison di Valmarino (4,60 nascite ogni mille abitanti), Refrontolo (4,73), San Pietro di Feletto (4,88), Cappella Maggiore (5,12), Gaiarine (5,16), Vittorio Veneto (5,21), Pieve del Grappa (5,32), Follina (5,43), Possagno (5,48).

Ma ci sono anche dei Comuni in controtendenza, con nascite cioè superiori alla media europea.

È il caso di Ormelle (11,64 nuovi nati ogni mille abitanti), Resana (10,30), Monastier (10,18), Asolo (9,86), Maser (9,72), Codogné (9,48), San Zenone degli Ezzelini (9,28).

E i centri principali? Il capoluogo è pesantemente sotto media: nel 2020 Treviso aveva una media di 6,78 nuovi nati ogni mille abitanti; Conegliano faceva ancora peggio (6,21); Castelfranco 6,44 nuovi nati per mille abitanti, Oderzo 6,15, Vittorio Veneto 5,21, Montebelluna 7,47.

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