PAVIA. Con la sua lunga esperienza di lotta al terrorismo negli anni di piombo e poi alla mafia, Armando Spataro, 74 anni (è nato a Taranto il 16 dicembre 1948), ex procuratore aggiunto di Milano, già a capo del Gruppo specializzato anti-terrorismo, dirigente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, sarà questa sera (ore 21) in Aula Magna dell’Università per la prima conferenza del ciclo su “Mafia, legalità e istituzioni” dedicato al professor Vittorio Grevi. «E’ importante mettere in luce la continuità dell’azione istituzionale e l’omogeneità dei criteri utilizzati nel contrasto a terrorismo e mafia – avverte Spataro – Negli "anni di piombo", la magistratura – pubblici ministeri e giudici istruttori – in assenza di un quadro normativo specifico, si organizzarono autonomamente, coordinando le attività investigative. Nelle riunioni si procedeva a uno scambio di verbali e informazioni, si concordavano le operazioni successive. Dopo il sequestro Moro nel 1978, questa prassi fu integrata con la decisione di far partecipare alle riunioni anche il personale specializzato di polizia giudiziaria. Questa decisione arricchì e potenziò l’azione contro il terrorismo».
In seguito arrivarono anche le leggi ad hoc.
«Il binomio magistratura-polizia giudiziaria fu poi integrato con la risposta legislativa. A questo proposito, lasciatemi rivolgere un omaggio alla figura di Virginio Rognoni, a mio avviso uno dei più grandi politici italiani di sempre, che aveva – tra l’altro – una particolare capacità di interloquire con la magistratura mantenendo l’autonomia di giudizio e di scelta. E non a caso il grande accademico Vittorio Grevi fu uno dei suoi consiglieri. Dobbiamo soprattutto a Rognoni una serie di leggi importanti approvate dopo il sequestro Moro. La prima fu quella sui "pentiti" (legge 6 febbraio 1980) che segnò una svolta significativa. Al coordinamento tra magistratura e polizia giudiziaria e alle novità legislative si aggiunse il ricorso ai numerosi collaboratori di giustizia che si manifestarono dopo quella legge: si trattò indubbiamente dI uno strumento decisivo per la sconfitta del terrorismo. La legge del 1980 è ancora in vigore; ne fu approvata una seconda nel 1982, che introduceva ulteriori sconti di pena per reati commessi prima della sua approvazione. Ma si trattò di un provvedimento di durata limitata a un anno, termine entro cui doveva manifestarsi la collaborazione. Una terza legge del 1987 introdusse benefici per i cosiddetti dissociati ».
Dopo la lotta al terrorismo, quella a Cosa Nostra.
«La continuità tra l’azione contro il terrorismo e quella contro la mafia si realizzò per così dire spontaneamente. Accadde che alle riunioni anti-terrorismo cominciarono a partecipare anche magistrati come Giovanni Falcone e altri che si stavano occupando di mafia. Questo non perché esistessero legami tra organizzazioni terroristiche e organizzazioni mafiose, ma perché quei colleghi volevano conoscere ed applicare al loro campo i nostri metodi di lavoro. E molti di noi passarono a loro volta ad occuparsi di mafia. Non dimentichiamo poi le scelte giuridiche come, ad esempio, quella del concorso esterno in banda armata che anticipò quella in associazione mafiosa».
Ci fu dunque una continuità anche in questo caso.
«Sì. La legislazione anti-terrorismo fu sostanzialmente estesa ai reati di mafia. Furono così concepite la direzione nazionale e le direzioni distrettuali anti-mafia per favorire coordinamento e specializzazione investigativa».
L’attenzione delle istituzioni è poi rimasta costante?
«È proseguita negli anni, insieme alla collaborazione tra magistratura e polizia specializzata. Quanto all’oggi, mi lascia molto perplesso l’ipotesi di abolizione del reato di abuso in atti d’ufficio, crimine grave molto comune nelle attività di tipo mafioso, così come l’intenzione di limitare l'applicazione del concorso esterno nei reati associativi».
Lei si è occupato a lungo di terrorismo, anche di matrice islamica. Ritiene efficace la risposta militare israeliana alla minaccia di Hamas?
«Non ho competenze specifiche per pronunciarmi. Certo è che la strage di civili, da una parte e dall’altra, è una conseguenza inaccettabile di quel conflitto. Posso però dire che la nostra risposta al terrorismo di matrice religiosa, consistita nella specializzazione delle procure e nel disciplinare il concetto di terrorismo internazionale, ha avuto una sua valenza ed efficacia. L’Italia, da questo punto di vista, non ha mai avallato il ricorso alla tortura o ad altri metodi coercitivi, neppure nei confronti dei peggiori criminali, e anche questo approccio così rispettoso dei diritti umani, probabilmente ha fatto sì che il nostro Paese sia meno esposto di altri ad azioni di ritorsione del terrorismo internazionale. L’efficacia di questo tipo di risposta al problema del terrorismo internazionale dimostra anche la sciocchezza di certe ignobili politiche contro l’immigrazione, basate sulla tesi del tutto inconsistente del "non si può escludere che annidati sui barconi ci siano anche dei terroristi". Gli scafisti e i trafficanti di esseri umani vanno sicuramente puniti, ma non c’è un solo caso acclarato di terroristi entrati in Italia in questo modo allo scopo di commettere attentati».