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Massimo Cacciari: «L’idea di Nord Est? Abbiamo perso, traditi dalla politica»

Professor Cacciari, vorremmo parlare di Nord Est.

«Ma come si fa a parlare di Nord Est? Ha ancora senso?».

Sì, perché lei ci credeva. Fu uno dei primi, no?

«Erano altri tempi, altre logiche. Con il termine Nord Est si intendeva una cosa diversa, oggi il significato è cambiato. In ogni caso Giorgio Lago, è noto, fu un fondatore di questo concetto. Con lui c’erano stima e amicizia, fino alla sua morte. È un’epoca passata».

D’accordo, allora ricordiamo l’epoca passata.

«C’era l’idea che lo Stato si potesse riformare in senso autenticamente federalista; il Nord Est non era una rivendicazione di stretta autonomia territoriale ma un’ipotesi, una linea culturale prima ancora che politica, per una riforma complessiva delle istituzioni».

Ma l’idea non passò.

«Certo le testate del gruppo Repubblica non aiutarono la causa... Rimasero giornali romano centrici. La concorrenza del Gazzettino di Lago si faceva sentire, non ci fu un vero approfondimento. E poi questa linea venne soffocata: dalle posizioni centralistiche romane dei partiti nazionali e dalla Lega. Che era la Lega di Bossi. Tra l’incudine e il martello, questa esperienza è stata massacrata. Ora è inutile parlarne».

Ma il concetto di fondo “tiene” ancora? C’è una trama di valori o di interessi condivisi tra queste regioni?

«È sbagliato vederla come una cosa a sé. Noi ritenevamo che ci fosse una specificità economica, di tradizione, anche di ethos di queste regioni che giustificava una reale autonomia nell’ambito di un riassetto federalista del Paese. Ma non ha niente a che vedere con ciò di cui si parla adesso, cioè, sostanzialmente, una rivendicazione per avere più soldi».

Che cosa volevate, o sognavate, quando parlavate di Nord Est negli anni Novanta?

«Pensavamo a una riforma generale nella quale le regione cessavano di essere 20 o 19; veniva meno lo Statuto Speciale e ogni regione assumeva piene responsabilità anche per le sue entrate. Era una riforma complessiva quella su cui si ragionava con Lago, con Mario Carraro, con qualche industriale dotato di intelletto. E con pochi, pochissimi politici, nessuno dei quali era un leader nazionale».

Quali radici aveva questo pensiero?

«Una radice certa era il cambiamento registrato con la riforma dei Comuni. Alcuni sindaci, per la prima volta eletti direttamente, portavano avanti questa linea; tra di loro cerano anche esponenti della Lega. Che poi, però, vennero silenziati da Bossi. Lui proibì assolutamente ogni contatto. Anche a Lago non venne data più carta bianca. Era una persona certamente non di destra, quell’esperienza al Gazzettino finì e passò a scrivere per le vostre testate».

Giornali, partiti, leghisti bossiani: tutti contrari.

«Cosa vuole, nel nostro Paese non è stata riconosciuta alcuna riforma. Che cosa vogliamo farci? Auguri».

Nell’assetto politico storico le regioni di Nord Est sono un feudo saldamente Dc. Poi cala la Seconda Repubblica, e altrove passano anche esperienze diverse. Dellai in Trentino Alto Adige, Illy in Friuli Venezia Giulia. Ma in Veneto, inesorabilmente, il centrosinistra non segna alcun punto. Perché?

«Storie diverse. Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia hanno lo statuto speciale, hanno condizioni istituzionali diverse: un paragone non è proponibile. In FVG non c’è stato un dominio democristiano come in Veneto. La Liga veneta riesce a interpretare anche con intelligenza una continuità con l’approccio Dc. Veda per esempio Zaia, una storia come la sua mica nasce per caso. Non c’è mai stato un leghismo di rottura, alla Bossi, secessionista… loro Bossi l’hanno seguito così, per convenienza, ma non ci hanno mai creduto. Né ci sono state mai personalità alla Calderoli, alla Borghezio, ’ste robe qua Gentilini è stato più che altro folclore. Diversi leghisti si erano molto avvicinati a una visione del Nordest come quella che le presentavo poc’anzi. Con una certa Lega si collaborava».

E perché a Bossi questa dinamica non piaceva?

«Perché mirava al bersaglio grosso. Il suo era un partito assolutamente centralista. Lombardocentrico anziché romanocentrico. Non ha mai avuto interesse verso il federalismo; semmai la sua idea era secessionista. Voleva proprio fare una nuova realtà nazionale. Quando Gianfranco Miglio si rende conto che Bossi non ha nulla a che fare con il “suo” federalismo, lo molla».

A Nord Est invece l’idea di secessione non sfondava.

«Il Veneto, in particolare, è stato sempre molto attento ai propri interessi; è la vocazione della sua base artigiana, industriale, contadina. Gli interessi, non le ideologie. Questo è un merito della cultura veneta. Non nascono i Salvini, a Nord Est. Hai personalità imprenditoriali che assumono caratura sociale, civile. Ma con pazienza e intelligenza, tra le righe. Poche parole e molte decisioni, cattive o buone che siano».

Dunque il federalismo resta inaccessibile? È solo colpa di Roma?

«No. Il punto è che non c’è stata una nostra voce politica nazionale. Inascoltata. È rimasta una struttura del mondo dell’impresa, solida. Ma è venuta meno la rappresentanza politica nazionale. La Lega intanto è stata sovrastata politicamente dai lumbard. E Zaia per esempio non ha la forza di reggere quell’impatto».

O non ne ha la voglia.

«Sì, può darsi. È una persona molto apprezzabile da questo punto di vista, sempre consapevole dei propri limiti»

Quindi una classe politica nazionale del Nord Est è venuta meno. Ma ciò configura anche delle responsabilità?

«Si poteva essere i protagonisti di un federalismo autentico (ma doveva essere lombardo e triveneto) che si imponesse sul piano nazionale a partiti che erano fortemente “romani”. E che lo sono tuttora. Purtroppo non è stato possibile perché contrastava la linea di Bossi, la secessione possibile».

E la destra di oggi?

«Zaia e Fedriga si sono ritagliati un’autonomia politica che è garantita dal potere amministrativo locale. Ma la destra non esiste come personalità. Mai esistita. Sono prodotti esclusivi dell’affermazione della Meloni, senza un vero gruppo dirigente. Nessuna destra autonoma, zero».

È solo la politica, che manca all’appello?

«Sì, perché per l’economia è diverso: l’economia, qui, produce. Ci sono imprese di vera avanguardia, con iniziativa imprenditoriale molto seria e innovativa. In alcuni casi l’impresa si va affermando anche per la sua importanza di natura sociale».

Questa conversazione è iniziata con pessimismo: lei ha esordito dicendo semplicemente che quell’idea di Nordest non esiste più.

«Ma quale pessimismo?! È puro realismo. Persino la Lega si è trasformata in un partito nazional popolare, in concorrenza con FdI, e stendiamo un velo sul Pd, specie in Veneto. Parlarne sarebbe impietoso».

Ma le persone si sentono del Nord Est? Oppure si sentono parte di una geografia sentimentale diversa, più stretta, più loro? Una vallata, una città identitaria, i paesi di un tratto di costa...

«Beh, sa, i radicamenti sono frutto di molte cose: nostalgia, sentimenti e anche un po’ di dati reali. Ma io credo che ormai, dopo tanto parlare di “glocal”, in realtà abbia vinto la parte rappresentata da quella G: il globale. Tutti i processi fondamentali, quelli che la gente avverte nel senso comune, sono risultato di equilibri planetari. E poi, di fronte alle tragedie che stiamo vivendo, vuole che ci sia tempo e voglia per mettere attenzione su ciò che accade nelle colline del prosecco?».

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