Rovistando nel passato di Pojana e i suoi fratelli — la performance di Andrea Pennacchi in scena domenica 29 al Verdi di Maniago e domani, lunedì 30, all’Auditorium di San Vito al Tagliamento a cura dell’Ert — vien fuori che: «All’avvio dell’idea lo spettacolo era una riflessione comica e amara sul Veneto scritta assieme a Giorgio Gobbo, intitolata Raixe Storte, e raccontata a più voci. Pojana, poi, diventò il più famoso del gruppo, anche se gli altri la presero malissimo, e l’insegna cambiò, appunto, in Pojana e i suoi fratelli», spiega l’attore padovano risucchiato da Propaganda Live di La7, interprete deciso, determinato e dotato di un’ironia sagace, rarissima in natura televisiva.
A proposto, Andrea, chi sono gli altri?
«La maestra Vittorina, Tonon il derattizzatore, Edo della security e altri figuri. Nonostante l’apparenza ininfluente i ragazzi hanno molto da dire e da cantare tant’è che il Pojana deve faticare per conservare il ruolo di caposquadra».
Diamo al suo protagonista una data di nascita e una storia? Lei, poi, ne parla come fosse un amico più che un personaggio.
«Vive e cresce con me. Ne parlo volentieri: Pojana nasce in Veneto e, per questo, il compito iniziale riguardava la descrizione della sua terra, nonostante poi il ragazzo si sia espanso nel Nord-Est. Girando per la Penisola lui si accorse di essere benvoluto anche al Sud e al Centro. Molti mi confidarono di quanto Pojana riuscisse a interpretare l’anima dell’Italia sebbene parlasse il dialetto veneto. La sua mamma è l’osservazione e l’ascolto delle persone. Non sembra, ma l’auscultare — per questo signore — è più importante del parlare. Raccogliere opinioni, sentimenti, benessere e malumori nelle fabbriche, nei taxi, nei bar, ovunque. Il padre, invece, è un intellettuale che adattò in dialetto alcuni versi di Shakespeare».
C’è nel suo cuore un posto d’onore per Dario Fo?
«Eccome no. L’amore per i drammi medievali è merito del grande affabulatore. Come una certa piega del mio percorso artistico che coinvolge due aspetti in antitesi fra loro: il diavolo e una parte buffa. Sappiamo quanto il demonio sia colto e indossi volentieri, a volte, una maschera diciamo più ridanciana».
Infatti qui avrei voluto arrivare: al concetto, appunto, di maschera. Il Pojana, in realtà, segue la tradizione della commedia dell’arte. Il Veneto, poi, è ricco di memoria al proposito.
«Dicendo così mi commuove. Paragoni impari, ma fa piacere sentire di appartenere a una consuetudine artistica».
Come narratore del profondo Nord-Est italiano che percezione ha della popolazione in questi anni Venti del Terzo millennio?
«Vedo gente arrabbiata, spaventata e che teme di perdere quello che ha. Il sistema che ha fatto diventare questa zona la locomotiva d’Italia non funziona più tanto bene forse perché i figli non stanno in capannone 24 ore al giorno come i padri. In più si aggiunga la paura dell’invasione, che sia animale o umana. Momenti difficili per tutti. Sebbene circondati da cose spaventose, per il teatro credo sia un momento straordinario. La crisi permette di raccontare le cose migliori. Anche per reazione, s’intende. Sperando che una voce possa dare coraggio».
La figura del comico attualmente è sovrastata da una realtà ben più surreale di qualunque fantasia.
«Io continuo a seguire l’istinto che mi indica una strada sola: creare una risata che non necessariamente sia costretta a mettere alla berlina qualcuno. C’è anche una funzione di cura nel buonumore. Riuscire a trasformare la rabbia in terapia buona: lavoro su questo».
Molti in tv approfittano degli inciampi altrui per farsi i soldi.
«Non è il mio caso. La colpa, in primis, è dei social. La televisione non fa altro che scimmiottare. Un esempio: non farei mai un monologo su Giambruno. Non mi interessa e non è teatro. In più armeggiare in una famiglia che sta per separarsi non mi fa per nulla divertire».
Lei e Paola Cortellesi in “Petra”: un serie seguitissima.
«Siamo due Don Chisciotte che lottano per la giustizia. Se non altro abbiamo un buon motivo per chiedere uno sguardo affettuoso».