foto da Quotidiani locali
Primo, mai scendere dalla bici. Al limite stare appoggiati a un muro, uno scalino, ma sempre in sella alla due ruote. Secondo, si viaggia per impennare e per fare trick, di cui l’impennata è solo la parte più facile. Questa è in pratica Bike Life, la compagnia mondiale che vede nella due ruote un sistema per stare in gruppo e crescere.
Il nome non se lo sono dati i partecipanti ma è stata una trovata del giornale di spettacolo “Variety” per definire il docufilm di Lotfy Nathan “12 O’Clock Boys”, su una banda di ragazzi adolescenti (il protagonista, Pug, nel 2013 aveva 13 anni) di Baltimora che viveva solo per trovarsi in sella alle proprie bici modificate per poter fare acrobazie.
Il titolo della recensione è stato “Bike life”. Il nome è rimasto e ora è conosciuto anche in veneto dopo che un 17enne padovano si è fatto filmare in centro mentre “puntava” in impennata i bus e li sfiorava, cambiando traiettoria all’ultimo secondo.
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Quello che dicono molti dei membri delle “crew” (cioè i gruppi che praticano la Bike Life), anche a difesa dell’adolescente padovano che è stato convocato dai carabinieri e segnalato alla Procura dei minori, è che quello dei trick è appunto uno stile di vita che va contro le consuetudini che vedono nella bicicletta un veicolo. Che invece per loro è un mezzo d’espressione.
Una moda adolescenziale, o perlomeno che viene abbracciata in quell’età dove ogni pericolo sembra normale e ogni sfida possibile e che magari poi resta. E dove la voglia di trasgredire è forte. Se ne sono accorti gli automobilisti delle città dove la Bike life è arrivata.
Già a Baltimora si vedevano i germi della ribellione, del disprezzo per gli adulti, l’invasione delle strade, lo sfiorare le auto. Germi che sono cresciuti nella West Coast e nelle aree urbane infinite degli Stati centrali, poi ancora con lo sbarco in Europa, prima nel Regno Unito, nella Birmingham e nella Greater Manchester delle seconde e terze generazioni d’immigrati.
Perché alle origini la Bike Life è un’esperienza povera. È vero che ora ci sono le bici speciali, che costano parecchio, già pronte. Ma i “veri” sono quelli che le bici “normali” le trasformano e le rendono perfette, plasmandole secondo i trick che già s’immaginano e adattandole alle sfide.
Solo così sono nate le wheelie bike, quelle con i “pegs” dei poggiapiedi posizionati sui mozzi delle ruote dietro o davanti.
Quindi una cosa che nei quartieri periferici poteva dare una distinzione, una rabbia di riscatto sulla vita normale e un parametro accettato di bravura.
E anche in Italia le prime band sono nate nelle realtà urbane attorno a Milano. Tutti con le semplici ed economiche Decathlon. E con quelle alcuni sono scesi anche in centro per un raduno. E per gli “altri” non è stata una passeggiata. A San Babila l’intera zona è stata paralizzata da centinaia di ragazzi “in alzo” su una sola ruota che sfioravano le auto, costrette a fermarsi, e puntavano anche quelle di polizia e carabinieri inviate sul posto.
Irriverenza, sfida, prova del limite. Le stesse cose successe in riviera Ponti Romani a Padova, con il ragazzo che puntava i bus, li costringeva a rallentare e poi se ne andava, sperando che nessuno superi il mezzo pubblico in quel momento, ma salutato da altri motocrossisti e ripreso dai compagni, anzi i “fratelli” che poi devono riversare su Youtube le imprese, proseguendo i video di leggende della Bike life, come Oneway Corey, l’atleta cui s’ispirano molte “crew” tra cui la più importante in Italia “onewaycorey”, o Little Harry.
E magari musicarli, come ha fatto il trapper A$AP Ferg, poi diventato famoso proprio con le sue videoclip sulla Bike Life.
Uno che con la Bike Life ha raggiunto fama e soldi. Tutti gli altri si accontentano della fama nella propria crew. E continuano a sognare nuove sfide in impennata.