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Come il fiume: un viaggio di resilienza e amore nel Colorado del 1948

di Rock Reynolds

È la “mile high city”, con i suoi 1.600 metri abbondanti di altitudine. Denver, la più grande città del Colorado, è un po’ una mezza via tra Milano e Madonna di Campiglio, insomma. Eppure, Come il fiume (Corbaccio, traduzione di Elisabetta De Medio, pagg 324, euro 18,60), romanzo d’esordio di Shelley Read, autrice originaria del cuore del Colorado in cui si svolge il suo libro, sembra non avere grande interesse per ciò che succede nella grande città, citata pochissime volte.

Romanzo di formazione, western crepuscolare, storia dal sapore quasi sudista, Come il fiume è tutto questo e anche qualcosa in più. La Read narra la vicenda drammatica di Victoria Nash, figlia di un noto coltivatore di pesche in una terra generosa ma al tempo stesso chiusa, come si addice a un luogo di montagna difficilmente accessibile nel 1948, anno di inizio della narrazione. Victoria ha perso la madre e un amato fratello in un terribile incidente e deve fare i conti con un altro fratello con il quale non ha la minima vicinanza elettiva, e con una famiglia segnata oltre che dal lutto pure dai pesanti contraccolpi della guerra. Suo zio, ferito gravemente, si trascina su una sedia a rotelle e non sorride più e suo padre, a sua volta, cerca di mettersi la sofferenza alle spalle, buttandosi totalmente nel lavoro. È quando incontra casualmente Wil, un giovane e avvenente forestiero, che Victoria capisce che sta per sbocciare una stagione inedita: quella dell’amore, un amore proibito, anche perché Wil è un mezzosangue in un paese in cui non v’è il minimo rispetto per la popolazione nativa. Victoria imboccherà la sua strada tra mille difficoltà, superando a suo modo cliché e pregiudizi, abbracciando le tradizioni agricole di famiglia e del territorio e, al tempo stesso, infrangendo stereotipi che assomigliano a veri e propri tabù.

È ancora una volta la provincia americana a farla da padrona, anche se in questo caso l’autrice ordisce intorno alla figura di Victoria una trama di sottili sfumature emotive che ne fanno un’eroina moderna, una donna determinata a portare in silenzio ma pure a testa alta il peso di una ingombrante responsabilità o, se vogliamo, secondo la spietata morale evangelica, del peccato. È la provincia in cui l’individualismo emerge con tutta la sua forza. È l’individualismo della persona come pure del luogo. Per quanto molto ospitali, infatti, gli americani mantengono una caratteristica che, semmai, con il tempo si è radicata, rafforzata, se non addirittura incancrenita. Soprattutto nei posti più inaccessibili, la reazione quasi immediata alle perplessità di un visitatore di fronte a qualche idiosincrasia del territorio, è: «Qui le cose sono sempre andate così. Se non ti sta bene, tornatene da dove sei venuto». In realtà, non è che la situazione sia sempre stata quella, ma è risaputo che per il cittadino statunitense medio un “prima” non esiste e la storia è unicamente quella che si è aperta con lo sbarco dei Padri Pellegrini sulle coste del Massachusetts. Dio lo ha voluto e qualsiasi critica al suo stile di vita è percepita come un attacco diretto, personale. La protervia con cui i compaesani e, addirittura, alcuni familiari di Victoria si scagliano contro il povero Wil, una non-entità in quanto mezzosangue, ne testimonia la rilevanza: altrimenti, Shelley Read non ne avrebbe fatto uno dei temi portanti del suo bel libro.

D’altro canto, questa autrice al primo romanzo nonostante l’età non più verde è figlia legittima di uno degli stati dalla natura più spettacolare degli USA e non fa nulla per nascondere l’amore per i luoghi aviti rispondendo alle nostre domande.

Da cosa nasce la storia di Victoria?

L’ispirazione viene dai miei profondi legami generazionali con la terra del Colorado. I miei antenati erano gente tosta, umile, che ha dovuto affrontare numerose difficoltà e che ha lavorato faticosamente per farsi una vita nel duro paesaggio del Colorado. La stessa cosa vale per gli allevatori che sono miei vicini e amici nella Gunnison Valley. Ho grande rispetto per questo stile di vita. Da quando sono nata, non faccio altro che esplorare la natura selvaggia delle Montagne Rocciose – facendo escursioni e campeggi, scalando montagne, sciando o, semplicemente, osservando fiumi impetuosi – e ho imparato tante lezioni dalla natura. E attribuisco pure grande valore ai miei figli e all’esperienza della maternità, tutte cose che hanno ispirato e plasmato il mio romanzo. 

Deve essere stato molto complicato raggiungere o abbandonare le Elk Mountains, la zona in cui è ambientato il romanzo, nel periodo in cui si svolge…

Sì, la Gunnison Valley si trova in una delle aree più remote del Colorado. Per raggiungerla o lasciarla bisogna superare pericolosi valichi di montagna. Questo viaggio deve essere stato ancor più pericoloso negli anni Quaranta. Nella zona di Iola già al tempo c’era un minimo di turismo da pesca per via delle famose acque ricche di trota dell’impetuoso Gunnison River, ma, per il resto, i paesi che ora si trovano sotto il Blue Mesa Reservoir erano comunità coese e isolate di persone che da generazioni facevano i contadini e gli allevatori, finché la costruzione di una grande diga non le ha costrette a evacuare l’area, nei primi anni Sessanta.

Il suo è un romanzo di formazione, un western crepuscolare e una riflessione sulle difficoltà che l’America della provincia ha a rapportarsi con il mondo…

È verissimo. Ed è pure un libro sulla relazione tra l’uomo e la terra e sulle tante lezioni di forza e resilienza che possiamo apprendere dal mondo della natura.

Come il fiume ha un che di classico che me lo fa accostare a certa narrativa del Sud degli Stati Uniti. Quel tipo di narrativa è tra le sue influenze?

Non sono stata direttamente influenzata dalla letteratura “sudista”, ma qual classicismo che lei percepisce sta nei vari temi narrativi che si dipanano in un ambiente ben definito. La letteratura sudista questo lo fa ottimamente e una nuova corrente letteraria del West è emersa nella stessa tradizione narrativa. Gli ambienti e i personaggi di Come il fiume sono tipici del Colorado in cui vivo e di circostanze storiche specifiche, ma ci sono lettori di varie parti del mondo che stabiliscono una connessione con le tematiche universali della storia di Victoria Nash.

Da americana del Colorado, quand’è che si è accorta dell’esistenza del popolo dei nativi e della cancellazione quasi totale della loro cultura?

Sono nata in quello che oggi viene chiamato il “Nuovo West”, una vivace area multiculturale degli USA in cui bianchi, ispanici, nativi e nuovi venuti hanno trovato il modo di vivere insieme in pace, a dispetto dei conflitti storici. Questo vale anche per cowboy, allevatori e imprenditori edili che devono vivere in pace con hippie, ambientalisti, sciatori e scalatori. In generale, nel Colorado di oggi, quasi tutti vogliono mettersi alle spalle i conflitti violenti del passato e vivere insieme in modo più cooperativo. Da bambina, sono stata sufficientemente fortunata da crescere in una famiglia che rispettava tantissimo il popolo dei nativi. I pregiudizi erano ancora molto diffusi nella generazione dei miei nonni, ma i miei genitori mi hanno insegnato la straordinaria bellezza delle culture native, in particolare il loro amore per il mondo della natura. I miei genitori mi hanno anche parlato del terribile genocidio ai danni dei nativi americani, una dura realtà dell’”espansione a occidente” non ancora spiegata dai manuali scolastici di storia. Una simile, inimmaginabile crudeltà mi ha rattristata profondamente. In seguito, ho imparato tutto il possibile sulle culture native e l’ho insegnato ai miei studenti universitari. Ho pure svolto del volontariato presso qualche riserva dei nativi e ho incoraggiato i miei figli a nutrire un grande rispetto per le popolazioni indigene. Le questioni razziali in America sono sempre molto complesse. Spero che il mio romanzo faccia vedere quanto razzismo e pregiudizi culturali ereditati possano essere devastanti per persone innocenti.

L’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali che, ancora una volta, potrebbero vedere uno scontro Biden-Trump. Il paese è diviso. Come può reagire uno scrittore a questa difficile situazione politica che minaccia di minare le basi stesse della democrazia americana?

Purtroppo, non c’è una risposta breve per questa domanda. Posso solo dire che l’attuale stato della politica negli USA mi rattrista e imbarazza tanto. Buona parte delle divisioni sono state create artatamente dai politici stessi per il loro tornaconto politico. È nostro dovere di cittadini rifiutarci di farci manipolare. Da professoressa universitaria, ho insegnato ai miei studenti le capacità di pensiero critico necessarie per partecipare in maniera significativa a una democrazia e per far sì che le persone elette rispondano delle loro azioni. Da autrice, spero di scrivere storie che possano colpire i lettori al cuore ed evocare empatia e connessione umana come contrappeso a pregiudizi e divisioni.

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