. Non dovrà infatti solo fare i conti con la manovra di Bilancio e con gli arcigni guardiani delle finanze pubbliche, con le parti sociali che incalzano e con i propri partner di coalizione che promettono di non essere da meno. Anche il fronte della politica internazionale, dove ha finora giostrato con abilità, si preannuncia carico di sfide. E non può permettersi di sbagliare un solo colpo. A fine anno, infatti, la presidente del Consiglio dovrà raccogliere dal Giappone il testimone della presidenza G7. Il calendario serrato delle ministeriali e del summit dei capi di Stato e di governo scandirà il ritmo del primo semestre del 2024, sovrapponendosi alle elezioni europee in primavera e al cantiere della nuova Commissione, che promette di arrivare all’autunno inoltrato.
In questo gioco di specchi in cui politica estera, vertici internazionali e consenso domestico si mescolano, un passaggio particolarmente delicato sarà il rendez-vous a Pechino con Xi Jinping. Le date dell’incontro non sono ancora note anche se la visita in Cina è prevista da molti mesi, ma è probabile che la premier mettesse in conto di volare prima a Washington che a Pechino. Sennonché l’appuntamento alla Casa Bianca è avvenuto da poco, nel luglio scorso. Con il risultato che la visita a Xi sarà in autunno. L’incontro avrà luogo appena prima che scatti il rinnovo automatico dell’Accordo sulle Vie della seta siglato in pompa magna da Giuseppe Conte nel 2019.
Tra gli addetti ai lavori è diffusa la convinzione che la Meloni voglia mettere personalmente a parte Xi della volontà italiana di recedere dall’accordo. Pur optando per un deciso posizionamento atlantista, la premier è stata attenta a non mettere il presidente cinese davanti al fatto compiuto. Gli vuole, per così dire, salvare la faccia, nel tentativo di non spezzare il filo del rapporto con Pechino. Ad attenderla, però, sarà uno Xi con i nervi a fior di pelle.
A preoccuparlo non può che essere la violenta «sbolla» immobiliare cinese, le cui scosse sono state avvertite in tutto il mondo, e il fuggi fuggi degli investitori globali dalla Cina. In passato le autorità cinesi avevano reagito ai rallentamenti nella propria crescita tramite ondate di investimenti nelle costruzione di infrastrutture e città. Con questo schema, erano state capaci di superare la crisi asiatica del 1997, e anche il tracollo del surplus commerciale nel periodo 2009-2011. Tale capacità di tenere elevati i numeri della crescita aveva a sua volta illuso i mercati che il Dragone avesse una capacità pressoché unica di tenere sotto controllo la volatilità domestica. In realtà, la presunta soluzione ha finito a sua volta per alimentare una enorme spirale di investimenti improduttivi in infrastrutture e immobili appunto, con una «sovradipendenza» da debito.
C’è dell’altro: Xi è preoccupato a tal punto dall’evidenza dei problemi economici da arrivare a vietare la pubblicazione delle statistiche sulla disoccupazione giovanile. In un recente editoriale sul Financial Times, Gideon Rachman ha puntato il dito sulla combinazione tra il forte malessere nelle fasce sotto i 40 anni della popolazione cinese e la demografia declinante. Quest’ultima è il frutto della scellerata «politica del figlio unico» applicata ininterrottamente tra il 1980 e il 2016. Il risultato è presto visto: l’anno scorso la Cina ha iniziato a registrare per la prima volta da 60 anni a questa parte una denatalità. Il Paese, insomma, si accoda a Giappone e Corea, che da anni fanno i conti con eccesso di «tempie bianche». Con un non trascurabile dettaglio: prima di invecchiare, questi Stati asiatici hanno avuto il tempo di arricchirsi. La Cina, che ha accelerato artificialmente il declino demografico, no.
Quanto ai giovani, nonostante la censura di Stato si stima che il tasso di disoccupazione giovanile sfori il 20 per cento. Il malessere è particolarmente forte anche tra gli studenti. Nella storia moderna cinese, le sfide più risolute all’ordine costituito sono venute proprio da ragazzi. Basti pensare ai moti studenteschi del 1919 e del 1989, brutalmente repressi, ma anche ai movimenti di protesta di Hong Kong del 2019-2020, animati da universitari. Per non parlare delle impressionanti manifestazioni di piazza che recentemente hanno costretto Xi ad archiviare le politiche zero-Covid, ormai strumento consolidato di controllo sociale del regime di Pechino. n
* Esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
© riproduzione riservata