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La guerra del grano

Si lanciano allarmi sugli approvvigionamenti di grano e cereali a causa della guerra in Ucraina e dell’ambiguità con i Paesi in via di sviluppo della Russia, che è uno dei maggiori produttori. Ma i veri meccanismi per queste materie prime dipendono soprattutto dagli interessi di poche multinazionali dell’Occidente, cruciali per l’offerta e il prezzo. E tra realtà e propaganda, l’Italia e la sua industria di trasformazione rischiano di restare schiacciate.

Neppure il Papa è riuscito a sfuggire all’inganno del grano. All’Angelus del 30 luglio ha declamato: «Non cessiamo di pregare per la martoriata Ucraina dove la guerra distrugge tutto, anche il grano, e questa è una grave offesa a Dio perché il grano è dono suo per sfamare l’umanità». È vero che la Russia sta usando i cereali come arma diplomatica, ma con la fame nel mondo c’entra poco e più della guerra può la concentrazione in pochissime mani del commercio globale. Che rischia di affamare il mondo per via dei prezzi.

La settimana scorsa il «tenero» saliva del 6 per cento a 491 dollari a tonnellata, il «duro» segnava più 4 per cento a 596 dollari a tonnellata. Tradotto in pane e pasta, significa un aumento di almeno 15 punti. La quotazione si fa a Chicago. Lì si scambiano 2,2 milioni di contratti al giorno per un controvalore medio di 89,4 miliardi di dollari. Sono tutti «future» (li ha inventati il matematico Talete nel VI secolo a. C. in Grecia e diventò ricco con le olive) tipici in agricoltura.

Oggi il Chicago Board of Trade è un agglomerato dove si commercia di tutto. Vale 74 miliardi di dollari e ne guadagna cinque all’anno. Quando era solo piazza per le «commodity» c’era un posto anche per Serafino Ferruzzi: signore italiano del grano. Precipitò con un aereo. Il parallelismo con Enrico Mattei, seppure mai provato, viene facile. Nel petrolio c’erano le sette sorelle, nel grano oggi sono in quattro a fare il mercato. Le chiamano le ABCD: Archer, Bunge, Cargill e Louis Dreyfus. Tre sono americane, la quarta è franco-olandese. Intermediano l’85 per cento dei cereali mondiali.

Cargill ha registrato un +23 per cento di fatturato, a 165 miliardi di dollari. Bunge segna un +17 per cento, si fonde con Viterra ed è diventata il primo commerciante di semi oleosi. Fattura 67 miliardi di dollari. Archer ha appena fatto il miglior anno della sua storia (120 miliardi). Dreyfus ha aumentato l’utile dell’80 per cento. ell’olio di girasole ucraini dai porti del mar Nero: utilizza il grano per tenere legati a sé i Paesi africani. Li ha convocati a San Pietroburgo e ha proposto: vi do tutto gratis, ma dovete sostenermi a livello internazionale. Gli osservatori hanno sottolineato che il presidente russo ha dato prova del massimo cinismo e ha fatto flop: solo 15 Stati lo hanno seguito. Però non hanno avuto il coraggio di dire che il vertice Onu-Fao, a Roma a fine luglio, è finito in nulla, come l’appello del segretario generale Onu António Guterres, tornato a invocare l’accordo del mar Nero per evitare la fame planetaria.

La guerra in Ucraina tuttavia è solo un pretesto per far girare l’ingranaggio mondiale dei cereali che vale una montagna di soldi. Tutti si preoccupano della disdetta di quell’intesa con la Russia, ma nessuno ha posto attenzione sul fatto che la Convenzione internazionale sul commercio di grano, riso, semi oleosi è stata prorogata per il rotto della cuffia (scadeva il 30 giugno scorso) per appena due anni. Perché? Una spiegazione c’è: da quella convenzione dipende l’International grains council (Igc) che mette insieme Paesi produttori e importatori. Con la guerra nel cuore dell’Europa è diventato di colpo ingombrante. Monitora i mercati e svela l’ingranaggio del grano.

Come ben ha sottolineato il gruppo di studio di Divulga, uno dei maggior think tank sull’economia agricola, l’accordo del mar Nero ha scongiurato le rivolte del pane, ma nella classifica di chi ha acquistato più grano figurano Cina (ne produce moltissimo ma al tempo stesso lo compra, con il 24 per cento), Spagna (18,3), Turchia (10) e l’Italia con il 6,3 per cento (abbiamo importato soprattutto mais per la zootecnia). Il «Black sea accord» ha distribuito la risorsa agricola a partire dai Paesi a reddito basso: all’Etiopia, lo Stato che fa arrivare più grano tenero da Kiev, 263 mila tonnellate, poi Yemen con 260 mila. Tra quelli a reddito medio-basso il Bangladesh ha importato 1,1 milioni di tonnellate, seguito da Egitto con 418 mila tonnellate e dall’Indonesia con 391 mila. Le uniche nazioni sviluppate, tra le primi importatrici di grano tenero ucraino, sono Spagna (2,3 milioni di tonnellate) e Turchia (1,58 milioni di tonnellate). L’Italia compra circa 435 mila tonnellate.

L’Igc certifica che la raccolta mondiale di quest’anno è la più scarsa degli ultimi quattro anni e che le scorte (al di sotto delle 600 mila tonnellate) sono le più esigue. Bisognerebbe bussare non solo alla porta dell’Ucraina, ma a tutti i produttori del globo: cinesi e indiani però si chiamano fuori, gli altri servono la speculazione. Secondo Divulga le scorte di grano ucraino si attestano ormai a un livello minimo, -66 per cento, mentre la «Russia è il primo esportatore al mondo grazie a una produzione record di 92 milioni di tonnellate nel 2022».

Se la ragione dell’allarme è la fame nel mondo, visto che Mosca è disponibile a cedere gratis il suo grano, perché tanto clamore? I due principali esportatori di cereali da Kiev sono Archer, che possiede i terminal di Odessa, e Cargill, che ha sotto contratto 1,7 milioni di ettari. ABCD controllano l’export di 20 milioni di tonnellate di prodotto ucraino. Nascono così accordi quasi di fantasia: il ministro degli Esteri di Zagabria, Gordan Grlic-Radman, e il suo omologo di KiecDmytro Kuleba annunciano che il grano ucraino passerà dai porti del Danubio croati per arrivare in Adriatico. In Croazia il fiume scorre per meno di 140 chilometri di fiume e un unico porto: Batina, si trova a a 1.600 chilometri da Odessa. Strano, no?

Nella guerra del grano c’è chi fa guadagni enormi. A mieterlo sono in pochi, a consumarlo tutti. A Cina, India e Russa è riconducibile il 40 per cento delle 760 milioni di tonnellate prodotte nel mondo, ci sono poi Canada in particolare con il «duro», quindi Usa, Francia, Ungheria, Germania, Pakistan e Turchia, oltre ad Argentina e Australia. Per rendere le proporzioni: Pechino ne produce 140 milioni di tonnellate, Budapest 20 milioni. Dopo l’accordo del mar Nero István Nagy, ministro ungherese dell’Agricoltura, ha però minacciato il blocco dell’export in Europa perché il grano ucraino fa concorrenza sleale a prezzi molto più bassi...

Insomma, è un risiko l’ingranaggio del grano mondiale. Dove rischia di restare stritolata l’Italia. Primi produttori al mondo di pasta, 3,5 milioni di tonnellate all’anno, importiamo il 40 per cento del grano duro: lo compriamo soprattutto in Canada. Importiamo metà del «tenero», 4,5 milioni di tonnellate, specialmente da Francia e Ungheria. Da Russia e Ucraina ne arriva non più del 4 per cento. Ma paghiamo dazio al falso allarme sulla fame nel mondo che è solo questione di prezzo. E il prezzo sappiamo pure chi lo fa. n

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