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Aleksandra Kollontaj e la sua liberazione sessuale proletaria



Fu questa aristocratica russa, diventata un’icona del bolscevismo, a teorizzare per prima una nuova idea di relazioni tra i sessi, a sostenere l’affrancamento delle donne dal matrimonio tradizionale e persino dalla maternità per entrare al più presto nel mondo del lavoro. Idee trionfanti nella cultura «progressista» e nel capitalismo sfrenato di oggi.

Odio il matrimonio». «Voglio scrivere e non vivere questa vita stupida». E dire che, per sposare Vladimir Kollontaj, Aleksandra aveva persino litigato con il padre, Michail Domontovic, un agiato nobile di origine ucraina. Sulle prime, quell’ingegnere non molto abbiente, figlio di una cugina paterna e dunque suo non lontanissimo parente, le era parso affascinante. Erano convolati a nozze nel 1893, ma già pochi mesi dopo Aleksandra si era stufata. Ben presto avrebbe lasciato il marito, preferendogli un amico dai più ampi interessi intellettuali. Del povero Vladimir, Aleksandra terrà soltanto il cognome con cui sarebbe divenuta celebre.

Era nata a San Pietroburgo nel 1872, dunque i suoi genitori la concepirono mentre a Parigi infuriava la grande tempesta rivoluzionaria europea che prese il nome di Comune. Una coincidenza significativa, visto che Aleksandra avrebbe consacrato l’esistenza alla rivoluzione comunista. In realtà, da giovane pensava di dedicarsi alla letteratura, ma la sua acerba prova da romanziera fu stroncata da un autorevole letterato, così pensò di optare per la saggistica. Fu un successo. Vorace lettrice di testi socialisti, la Kollontaj iniziò a farsi largo nel mondo intellettuale con articoli impegnati, e negli anni si spostò sempre più a sinistra, fino a diventare una icona del bolscevismo.

Una scorrevole biografia firmata da Hélène Carrère d’Encausse per Einaudi, Aleksandra Kollontaj. La valchiria della rivoluzione, ne ricostruisce il tormentato percorso politico e sentimentale: da un movimento politico all’altro, da un amante all’altro, da un capo carismatico all’altro. Grazie alla sicurezza economica garantitale dalla ricca famiglia, poté girare l’Europa e ne trasse profitto. Studiò con illustri insegnanti e imparò le lingue, diventando una oratrice poliglotta richiesta ai comizi e molto stimata dai suoi superiori politici. Passò dalle tendenze socialdemocratiche alla passione per i menscevichi, e a partire dal 1915 si avvicinò a Lenin, con cui condivideva l’opposizione alla guerra. Ne divenne una fedele collaboratrice tanto che, dopo la rivoluzione d’ottobre, fu nominata Commissario del popolo. Negli anni Venti tuttavia ne divenne oppositrice, al punto da guadagnarsi un altro viaggio in Europa, sotto forma di velato esilio.

Non è però l’avventurosa parabola di una aristocratica sovversiva a interessarci. Ciò che rende la Kollontaj una figura di enorme attualità è la sua visione dei rapporti amorosi, la sua costruzione di una teoria della famiglia che, all’epoca, appariva avanguardistica, ma oggi si può dire che abbia trionfato conquistando le masse. L’eros proletariato ch’ella propugnava non è molto diverso dall’eros che il capitalismo liberal ha concretizzato.

Il suo pensiero su sesso e amore è sintetizzato in «Lettera alla gioventù lavoratrice» del 1923, in cui spiega «l’ideale dei rapporti tra i sessi dal punto di vista dell’ideologia proletaria». Lo scritto, Largo all’Eros alato, è stato ripubblicato nel volume Amore e rivoluzione (Redstar Press). «L’essere esclusivi in amore» secondo la Kollontaj «deriva naturalmente dalla forma di unione coniugale stabilita dall’ideale borghese». Al contrario, «la morale della classe operaia, nella misura in cui ha già iniziato a cristallizzarsi, trascura completamente la forma esteriore che possono assumere i rapporti d’amore tra i sessi. Per ciò che concerne gli obiettivi di classe del proletariato è del tutto indifferente che l’amore assuma la forma di un’unione duratura e legalizzata o si esprima in una relazione passeggera. L’ideologia della classe operaia non impone limite formale all’amore». Nessun limite a eros, dunque. A patto che l’ideologia proletaria possa «educare il sentimento d’amore tra i sessi nello spirito della nuova grande forza psichica: la solidarietà fra compagni».

Già, bisogna rieducare uomini e donne, insegnare loro come vivere in un mondo di «liberi e uguali». Vi ricorda qualcosa?

La Kollontaj cominciò a elaborare queste idee già nel 1915, mentre girava il mondo per diffondere il pensiero del nuovo amico Lenin. «Proprio in quei mesi, così impegnati dalla stesura di articoli e dagli incontri con i socialisti dei Paesi nordici per difendere appassionatamente le tesi leniniste, Kollontaj si dedica anche a un’opera ambiziosa che prenderà il titolo di Società e maternità» leggiamo nella biografia della d’Encausse. «In quel testo, sviluppa idee che le sono care da tempo: le donne devono essere liberate dal peso della maternità per poter lavorare fuori casa, perché solo partecipando attivamente alla vita sociale possono realizzarsi. Se è la madre a dare la vita al bambino, a nutrirlo, spetta però alla società, alla quale offre un nuovo membro, subentrare dopo qualche mese. La redazione del volume subirà molte interruzioni per via dei viaggi di Aleksandra, che riesce comunque a terminarlo prima dello scoppio della rivoluzione in patria, dove viene pubblicato nel 1916. Quel testo contiene già tutte le proposte che si sforzerà di mettere in pratica quando arriverà al potere».

Nonostante la Kollontaj avesse sempre osteggiato le femministe delle origini, ritenute troppo borghesi, la sua lezione formerà gran parte del successivo femminismo marxista e post marxista. E ritornerà prepotentemente alla ribalta con la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, portata avanti per lo più da borghesi e intellettuali (cioè, in fondo, da persone che le assomigliavano). Ancora adesso la «liberazione dalla maternità» rimane incisa nella mentalità progressista, così come la tendenza a considerare la famiglia inadatta a educare i bambini: meglio che ci pensi lo Stato o, nella versione più recente, qualche entità sovrastatale.

Aleksandra aveva già detto tutto alla Conferenza nazionale delle donne nel novembre 1918. Parlò subito dopo l’appassionata Inessa Armand, cara amica di Lenin. In quella occasione, la Kollontaj disse alle ascoltatrici russe che la concezione «di famiglia tradizionale doveva scomparire per liberare le donne dalle faccende domestiche. Le donne dovevano poter crescere i figli, amarli, godere della loro presenza senza doversi preoccupare dei problemi materiali. Il nuovo modello di famiglia si poteva così riassumere: «Due membri dello Stato operaio, uniti dall’amore e dal rispetto, liberi dalla gelosia, con donne non piú dipendenti dagli uomini ma divenute ormai loro pari”. Spettava allo Stato fornire alle donne i mezzi materiali per crescere i figli senza doverne sopportare il carico. Nelle case si dovevano realizzare asili e ristoranti o mense comuni».

Come ricorda Hélène Carrère d’Encausse, queste teorie furono accolte con approvazione ma anche con una sana dose di scetticismo: le donne russe avevano intuito il potenziale distruttivo di quei ragionamenti. «I discorsi di Inessa e Aleksandra vennero applauditi, ma furono anche accompagnati da affermazioni ostili o allarmate: “Non vogliamo che i nostri figli ci vengano portati via”. Kollontaj cercò di rassicurare il pubblico su quel punto, ma senza riuscirci davvero».

C’era poco da rassicurare, perché quelle idee avrebbero in effetti condotto alla espropriazione dei figli e alla dissoluzione della famiglia. Per paradosso, l’Unione Sovietica per un certo periodo avversò la visione della Kollontaj, che si ripropose con maggior vigore nel cosiddetto mondo libero anni dopo la morte di Aleksandra, avvenuta nel 1952.

Ennesimo paradosso fra i tanti che hanno costellato l’esistenza della Kollontaj: ostile a Lenin, ne divenne poi sostenitrice prima di passare all’opposizione e lasciare l’Urss. Libertaria e «sessualmente emancipata», vicina a Trockji per un periodo, tornò in auge (persino con una brillante carriera diplomatica, un primato femminile) ai tempi di Stalin, che sostenne ripetutamente e con convinzione, fingendo di non vederne i lati brutali. Pensava alla liberazione femminile, ma sorvolò sui gulag. A lungo dimenticata, da qualche tempo l’Occidente neoliberista torna a farne memoria: il capitalismo sfrenato ha infine realizzato i sogni di decostruzione di Aleksandra, aristocratica convertita alla rivoluzione (anche) da un modernissimo fastidio per le sue origini.

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