Dopo aver imparato a cinguettare con le dita, impareremo a usarle per cucire parole su una tastiera: ecco Threads (fili in italiano, per l’appunto), l’emulo di Twitter, l’epigono della piattaforma dell’uccellino blu dove far svolazzare pensieri in libertà.
Threads è la nuova creatura di Mark Zuckerberg, va a braccetto con Instagram da cui pesca gli iscritti, ha raccolto 100 milioni di utenti in cinque giorni dal debutto (mai nessuna app nella storia ha fatto meglio), nonostante non sia ancora disponibile in Europa: colpa dei suoi principi cigolanti, non in linea con i cardini nostrani della tutela della privacy.
È l’ennesimo social network che combatte per prenderci il tempo e qualche dato di troppo, per convincerci a blaterare caratteri e faccine. Le arene virtuali, mai come ora, sono differenziate e plurali. Distinte, per quanto simili: l’ultimo Digital News Report 2023, curato dall’università di Oxford assieme al Reuters Institute e diffuso a fine giugno, parla esplicitamente di fragmentation, di frammentazione. «La dipendenza dai social network» si legge nel documento «può essere in crescita, però non sono necessariamente le stesse vecchie reti». Il fenomeno non rallenta, si diversifica.
Sta accadendo un’esplosione, un big bang del nostro interagire, specie tra i più giovani, che si rifugiano in spazi franchi, al riparo da genitori e boomer molesti. Se si tengono a parametro 12 mercati chiave, compresa l’Italia, TikTok galoppa nel segmento degli under 25 (dal 2019 l’uso è passato dal 5 al 38 per cento), Facebook è in caduta libera, WhatsApp resiste (i contatti abituali sono di norma un recinto chiuso), si fanno largo alternative quali Discord (caro al 15 per cento dei ragazzi) e Twitch (12 per cento).
C’è posto pure per Mastodon, altra copia di Twitter, e per BeReal, dove si predica l’autenticità, quel mostrarsi senza filtri tanto caro alla Gen Z. Si sta avverando la profezia dell’attivista e blogger statunitense Ethan Zuckerman, che ha parlato di morte dell’ideologia del network dominante, dell’utopia della Silicon Valley di catturarci e intrappolarci in pochissime, smisurate reti sociali. A ricordarlo è Francesco Oggiano, tra i principali esperti italiani di nuovi media: «Ognuno di noi» spiega «sarà membro di una dozzina di community, perché il dialogo fa comunque parte della nostra natura di esseri umani. Penso anche a Telegram, che sta avendo successo con i suoi canali, a Substack, partito come servizio di newsletter, che integra sempre più servizi di condivisione. Ancora, guardo a piattaforme basate sulla prossimità fisica come Nextdoor, declinazioni politiche come Truth, case digitali quali Geneva: stanze di bit suddivise per interessi».
Siamo nell’era di quelli che Oggiano, autore della newsletter «Digital Journalism», ha definito «nanosocial»: il trionfo del piccolo ma vario, lo specchio dei nostri umori ondivaghi, il riflesso di passioni ardenti e fiammate di tradimenti, consumati in transumanze verso lidi alternativi. Un’altalena che non abbatte i giganti, da TikTok a Instagram, ma ne afferma la virata da social media a recommendation media: sfilate di contenuti basati sui nostri interessi captati da un algoritmo. «Spazi in cui veniamo intrattenuti da persone che non conosciamo. Così, il following, l’atto di seguire, perde d’importanza».
È l’antitesi del paradigma Facebook: «Dove ancora trovo i post degli amici di 10 anni fa. Non sono attrattivi, perché nel frattempo ho cambiato lavoro, città, passioni». Zuckerberg è costretto a incassare il colpo, intanto tesse tele parallele come Threads: «L’ennesimo tentativo d’imitazione.
Da anni la strategia di Meta è quella del clona e conquista. L’ha fatto con i Reels, mutuati da TikTok, con le storie prese da Snapchat» riflette Oggiano. Ci riprova con Twitter, che soffre sotto il dominio di Elon Musk: il patron di Tesla ha dovuto ammettere un calo stimabile intorno al 50 per cento degli introiti pubblicitari dopo il suo arrivo al comando.
Threads contiene una diversificazione dall’uccellino blu: «Non incoraggia le discussioni politiche, né punta sulle notizie d’attualità. Evita il dibattito tossico, si concentra su sport, musica, bellezza, intrattenimento». In sostanza, è una versione alleggerita, forse edulcorata di Twitter. Cova la speranza di sedurre il pubblico meno impegnato di Instagram, per indurlo a spendere ore supplementari nella galassia di Meta.
Il terremoto in corso non risparmia nemmeno i volti più noti dei social network: gli influencer. A inizio luglio, una ricerca della società DeRev evidenziava una caduta del 13 per cento dei loro compensi per le attività su Facebook; un aumento, però a due velocità, su Instagram: più 14,5 per cento per chi ha fino a 300 mila follower, una crescita di appena l’1,8 per cento per chi supera il milione di seguaci. È il segnale, anche qui, di una frammentazione, di un allontanamento da chi strizza l’occhio a un pubblico troppo vasto.
La parola chiave, in tale ambito, è «deinfluencing»: un raffreddamento verso i consigli per gli acquisti insinceri, smaccati, inseriti con furbizia in un post o in una storia. «È la risposta ad anni di sponsorizzazioni in cui gli influencer non hanno fatto altro, con il solo scopo di guadagnare, che la cosiddetta “marchettata” di prodotti ritenuti poi, dai più, scadenti o non funzionali» riassume Andrea Croce, Ceo e fondatore di PopulaRise, piattaforma specializzata nell’uso dei «non-influencer». Ovvero «persone comuni e tendenzialmente clienti dei brand, che in cambio di piccoli incentivi siano disposte a recensire, attraverso i propri canali social, prodotti e servizi. In questo modo, si genera una comunicazione maggiormente autentica, fondata sul passaparola digitale».
Nel big bang dei social network, in questo mondo digitale spezzettato e diffuso, ogni rete periferica ha una centralità. Il singolo guadagna peso, riprende potere. Sui nanosocial siamo, tutti, micro-influencer.