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Un anno senza Omar Monestier

Martedì 1 agosto, nel primo anniversario della morte del direttore Monestier, alle 9, nella chiesa della Beata Vergine del Carmine, in via Aquileia a Udine, sarà celebrata una messa. Alla funzione religiosa parteciperanno i familiari, i colleghi, gli amici, i conoscenti e tutti coloro che vogliono ricordare Omar. La funzione sarà celebrata da don Giancarlo Brianti.

IL RICORDO

L’occhio veloce tanto quanto il suo pensiero, intelligente, gentile, ma anche diretto e spietato quando serviva, mai una parola mal riposta, curioso, vanitoso (forse per via di quella barba). È trascorso un anno da quella mattina: «Paolo, Omar non c’è più». La voce di Sara, il dolore, lo sconvolgimento, l’incredulità, le lacrime, la domanda: «Oddio e adesso come facciamo?».

Quel primo agosto il grappolo dei suoi sms, la gragnuola dei suoi whatsapp non erano arrivati – cosa strana – in risposta alle domande che nascevano all’alba sulla giornata che si stava aprendo. Fino alla mezzanotte della sera prima mi aveva scritto per cambiare un titolo che non lo convinceva. Era così. È stato così.

La sua lunga esperienza dentro i quotidiani, il suo quasi ventennale incarico di direttore gli avevano dato l’invidiabile conoscenza e la raffinata capacità di saper guardare dentro le notizie e di collocarle nel giusto contesto. Arrivò in Friuli da Padova, con i pissipissi che – in ogni redazione – precedono l’ingresso di un nuovo direttore. Com’è? Chiedevano i colleghi ai colleghi. Bravo, invadente, ma uno di noi.

Tutto vero, l’abbiamo sperimentato nel nostro percorso.

Ha subito cercato di entrare in sintonia con i friulani, immedesimandosi, impegnandosi a capirli, chiedendo spiegazioni, facendosi suggerire letture (da Tessitori a D’Aronco, da Giacomini a Maniacco, da Sgorlon a Cappello), domandando e pretendendo di conoscere questa terra, anche imparando alcune parole di friulano. Agevolato dalle origini bellunesi, un uomo di montagna, con esperienze giornalistiche in Veneto e Trentino Alto Adige, offriva a noi il suo sapere sui quotidiani locali e la sua vitalità, la sua infaticabile dedizione al lavoro e il suo modo di intessere continuamente relazioni.

E via allora con il primo giro, quello che poi nei racconti in redazione avevamo battezzato il “Monestier primo”. Sono stati anni belli, entusiasmanti, ricchi – quanto ci siamo divertiti e quanto anche abbiamo litigato (mentre uscivo dal suo ufficio mi gridava: «Adesso per quanti giorni non mi parlerai?») –, perché poi ne sono venuti altri.

La cronaca, quella spiccia dei nostri paesi, quella delle nostre piccole città, i volti, le storie, i protagonisti erano – e sono – la materia prima alla quale attingere. Un mix giusto con i temi della politica e dell’economia, del sociale e della cultura per raccontare e descrivere le province di Udine, Pordenone e Gorizia.

Sperimentammo il digitale, con lui. Una spinta forte, innovativa, una strada ancora vergine ma che lo incuriosiva e lo induceva a trascinarci e a farci largo tra mille dubbi. Non temeva la cannibalizzazione della carta a favore del digitale, ma li riteneva mezzi diversi con pubblici altrettanto diversificati ai quali rivolgersi.

In mezzo l’esperienza in Toscana alla guida de “Il Tirreno”, il più grande quotidiano locale del gruppo editoriale Gedi, una nave complessa con tredici redazioni, del quale mi evidenziava le difficoltà durante le nostre lunghe chiacchierate al telefono. Aveva visto un mondo dell’informazione che cambiava molto più velocemente che qui, un po’ lo spaventava perché era la conferma che il mestiere che tanto amava a poco a poco aveva imboccato un inarrestabile declivio.

Poi il ritorno, visto con stupore ben presto evaporato. Quando l’editore gli comunicò il rientro a Udine mi disse: i direttori non tornano nei quotidiani che hanno già guidato. Quelli bravi sì, gli risposi con una battuta, Mieli e De Bortoli hanno fatto staffetta al Corriere. Si mise a ridere al telefono e mi disse qualcosa che poteva sembrare una presa in giro o forse, ora che ci ripenso, era proprio un simpatico insulto.

Al rientro mi prese sotto la sua ala, imparai molto, cercai di assorbire tutto quello che potevo perché sentivo che mi stava trasmettendo il meglio di ciò che aveva elaborato nella sua lunga esperienza. Infinite chiacchierate per affrontare i temi, per chiarire gli argomenti, per guardare al domani e saperlo raccontare. Quanti ricordi in questo ufficio, che da quel primo agosto è rimasto chiuso a chiave per mesi.

E ancora tanto e tanto digitale: «È lì che dobbiamo andare», ripeteva e noi al suo seguito pronti a farci carico di un cambiamento professionale notevole, non sempre capito, a volte sbuffando, ma che il mondo che sta là fuori aveva compreso.

Omar fu condirettore de “Il Mattino di Padova” e quante volte mi parlò di quella sua esperienza e di Fabio Barbieri, il direttore dei quotidiani veneti scomparso prematuramente, al quale lui succedette. E nel raccontarmelo mi ripeteva che lui non voleva fare il direttore, gli capitò. Non gli ho mai creduto e gliel’ho anche detto.

Gli piaceva fare il direttore, eccome. Abitava un ruolo che gli si confaceva perfettamente. Di Barbieri era il braccio destro, aveva grande stima e anche un po’ di amicizia. Una storia e un modello di rapporto che si sono perpetuati quando al termine di tante giornate di lavoro – mentre facevamo il punto sull’oggi o la previsione sul domani, quando organizzavamo o ci confrontavamo – ripeteva: «Scusami, ma faccio a te il predicozzo e la lezione di capitudine come Barbieri faceva con me». La mia risposta era sempre la stessa, diciamo un po’ scocciata con qualche parola che non sto qui a ripetere.

Ma che vuoto ora e quanto mancano quei predicozzi e quelle lezioni… Come mancano pure quegli irritanti: «Dai, dai, dai...», così per tagliar corto quello che non gradiva. La perdita di Omar è stata un duro colpo, una tragedia, una incolmabile perdita umana e professionale. Uno strazio, uno strappo violentissimo per la sua grande famiglia degli affetti, con Sara, Benedetta, Tommaso, Giulio e Giovanni, e per la nostra, quella del Messaggero.

La redazione ha reagito con professionalità, generosità e dedizione, tutti insieme, in un momento drammatico nella storia di questa testata.

Mi sono chiesto da dove ripartire, mentre a tutti qui ancora scendevano le lacrime. E la risposta più naturale è stata quella di farlo partendo dal patrimonio professionale che ci aveva lasciato. Una magnifica e fiera persona, incapace di ipocrisie e di patteggiamenti, schietta, ironica ed elegante. Un giornalista protagonista della nostra storia civile. Condividendo con lui la direzione negli ultimi anni avevamo tracciato linee comuni di un brand leader che guarda al futuro e che non si sottrae alle nuove sfide editoriali di un mercato in mutamento veloce e incessante. Così avrei continuato con tutta la redazione.

Nel gennaio 2021 un’altra responsabilità per lui, alla direzione del “Messaggero Veneto” si aggiunse quella de “Il Piccolo”, traguardo o punto di partenza per far comunicare meglio le due testate. Con Omar Monestier e con l’amica e collega Roberta Giani (quand’era a Trieste: «Sei sempre a Trieste da Roberta», quand’era a Udine: «Perché non vai a Trieste a rompere a Roberta?») ci siamo incamminati su una nuova strada per fortificare la collaborazione tra i due giornali, unendo, dove possibile, le forze e le professionalità delle redazioni, lasciando ampio spazio al locale. Questo era il progetto avviato da Omar e questo abbiamo continuato a fare.

Gli piaceva la politica, lo incuriosiva l’economia. Una regione piccola come la nostra ha reso la contrapposizione tra il Friuli e la Venezia Giulia un punto debole anziché rovesciare la prospettiva e pensare in grande rendendolo un unicum, trasformandolo in un punto di forza. Se n’era accorto Omar, che dirigendo i due giornali guardava l’una e l’altra faccia della medaglia facendone tesoro e leggendo i cambiamenti di questo territorio con acutezza. Me ne parlava spesso collegando i punti di un ragionamento che ci portava a capire gli scenari politici, economici, sociali visti da Udine, da Pordenone oppure da Trieste.

La nostra è una voce che parla ai suoi lettori con una vocazione locale, grazie a un legame viscerale con il territorio, una comunità che vuole sapere che cosa accade nel mondo e di questo riceve spiegazioni.

Lui le spiegazioni le sapeva offrire, mai banalizzando, con punti di vista originali, talvolta spigolosi, ma sempre frutto di grande riflessione che generava nuovi confronti.

In un articolo che firmò per i quotidiani veneti nel decennale della scomparsa di Barbieri si descrisse con queste parole: «Io ho iniziato così. Con la cronaca locale. La amo visceralmente, mi fregio del titolo di giornalista che fa giornali provinciali come se portassi la più alta onorificenza dello Stato. Mi garba così e morirò così».

Mi (ci) manchi.

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