No, non sarà Elon Musk, a fermare l’Intelligenza artificiale. Alla fine, anche il più avveniristico dei miliardari si è allineato a un motto antico: se non puoi batterli, unisciti a loro. Così, dopo aver trascorso gli ultimi cinque anni (e soprattutto gli ultimi sei mesi) a predicare al mondo i terribili rischi dell’AI, Musk ha reclutato gli 11 migliori scienziati americani dell’informatica e ha fondato una nuova società, XAI, per fare ricerca nel settore.
A frenare l’AI non saranno nemmeno gli autori e gli sceneggiatori di Hollywood, scesi in sciopero per la prima volta da 63 anni contro l’indebito sfruttamento del loro talento e contro l’appropriazione indebita delle loro idee, in pochi secondi digerite, rielaborate e trasformate da una qualsiasi rete neuronale artificiale. E non ci riuscirà nemmeno il potente sindacato dei 130 mila attori americani, giustamente spaventati dai primi video sperimentali in circolazione, in grado di replicare già quasi alla perfezione volti, voci e movenze di alcune star del cinema: se applicata al mondo delle comparse, la novità potrebbe cancellare decine di migliaia di posti di lavoro.
È difficile che queste proteste riescano nel loro intento. È probabile, anzi, che autori, sceneggiatori e attori non riusciranno a combinare nulla perché l’Intelligenza artificiale trionfante, i colossi industriali alle sue spalle, e soprattutto i consigli d’amministrazione che fiutano profitti plurimiliardari, non temono né le marce sindacali, né gli scioperi di categoria. A impensierire i vertici delle imprese che ogni giorno espandono le frontiere dell’AI, semmai, sono i tribunali: è soltanto lì, nelle aule di giustizia, che (forse) si potrà trovare il modo d’imporre almeno qualche limite al possibile strapotere dei robot di domani.
Per ora ci stanno provando alcuni singoli umani, con piccole cause-pilota. A metà luglio l’ha fatto lo scrittore americano Paul Tremblay, autore tra l’altro di La casa alla fine del mondo (Mondadori), il quale ha citato in giudizio OpenAI, la società fondata nel 2015 dal genio dell’informatica Samuel Altman. Trembley ha accusato OpenAI - che grazie all’applicazione ChatGPT è al momento più avanti di ogni concorrente nello sfruttamento dell’Intelligenza artificiale - di essersi appropriata delle sue opere senza rispettare le norme sul copyright.
Pochi giorni dopo si è mossa l’attrice e commediografa statunitense Sarah Silverman, due Emmy awards per i film School of Rock e Rent, che per la medesima accusa ha fatto causa sia a OpenAI, sia alla Meta di Mark Zuckerberg.
Ma l’attacco più duro agli abusi e ai pericoli dell’AI è stato depositato alla fine di giugno nel tribunale di San Francisco. Il 28 di quel mese, OpenAI è stata raggiunta da una class-action lanciata al più ampio livello federale. In Italia la notizia non ha ottenuto molta visibilità, ma le 157 pagine di quell’atto rischiano di cambiare in profondità la storia di ChatGPT, e potrebbero avere effetti dirompenti sull’intero settore dell’AI. La citazione è stata curata dallo studio Clarkson, una grande «law firm» che ha sede a Malibu, in California, ma anche a San Francisco e a New York, ed è famosa per le principali class-action americane degli ultimi anni. Gli avvocati dello studio Clarkson sono noti per aver trascinato in tribunale il colosso farmaceutico Kimberly-Clark a causa delle troppe sostanze chimiche nascoste nei pannolini da neonato. Hanno fatto lo stesso con la Barilla, accusandola di pubblicità ingannevole per la scritta «Questo è il marchio n° 1 della pasta italiana» che campeggia sulle sue scatole, là dove spaghetti e maccheroni venduti negli States sono prodotti nell’Ohio. Hanno poi strappato 2,5 milioni di dollari alla Ferrara Candy, una grossa casa di dolciumi condannata perché le sue confezioni di caramelle, troppo grandi rispetto al contenuto, inducevano in errore i consumatori. Ora sono impegnati anche contro TikTok, che avrebbe sottratto indebitamente dati personali ai suoi utenti.
La class-action contro OpenAI è stata sottoscritta da 16 cittadini, che vengono individuati solo con sigle: nell’atto di citazione accusano la società con toni durissimi di avere sviluppato ChatGPT «rubando sistematicamente e in segreto oltre 300 miliardi di parole, sottraendole a materiale coperto da copyright», e rintracciabile su Internet in «libri, articoli, siti web, post e social media».
I 16 sostengono che OpenAI avrebbe dovuto registrarsi come un «data broker», cioè una di quelle società che raccolgono dati personali con finalità di marketing nel rispetto della privacy e in totale trasparenza, e avrebbe dovuto «pagare per tutto quello che raccoglieva». Questo invece non è mai accaduto, e ancora oggi OpenAI «continua a rubare dati, prelevandoli dal Web senza preavviso e consenso».
La class-action accusa OpenAI di avere infranto anche le norme sulla privacy, «perpetrando furti di massa di dati personali», e perfino quelle a tutela dei minori: nell’atto viene citato Dall-E, un altro prodotto di OpenAI, che verrebbe utilizzato dai pedofili «per elaborare immagini virtuali di bambini partendo da foto reali, pubblicate online» (e ovviamente rubate).
Lo studio Clarkson ricorda ai giudici che esiste un precedente molto simile: è quello di Clearview, una società del Vermont che da tempo usa l’AI per il riconoscimento facciale e nel 2020 fu accusata di aver rubato su internet le foto e i dati biometrici di milioni di americani. Inseguita da una class-action federale, nel maggio 2022 l’azienda ha scelto di patteggiare, ha versato milioni e ha dovuto registrarsi come «data broker» per accedere alle foto e ai dati online, chiedendone il permesso agli interessati.
Ora, in base alle leggi americane, ogni cittadino degli Stati Uniti che si senta leso dai comportamenti di OpenAI potrà unirsi alla class-action. I primi 16 firmatari chiedono al tribunale che la società «risarcisca ogni parola e ogni dato illecitamente sottratto» e paghi per «i suoi algoritmi costruiti sui dati rubati». L’atto di citazione sottolinea che, malgrado OpenAI si dichiari organizzazione no-profit, «la società oggi è valutata 29-30 miliardi di dollari».
Lo studio Clarkson pretende «un risarcimento equivalente al valore dei dati rubati, più la quota di profitti che la casa ha guadagnato su di essi»: in teoria si tratta di miliardi di dollari. L’atto, oltre a OpenAI, cita in giudizio Microsoft, che dal 2016 è partner tecnologico nell’avventura di ChatGPT e finora ha investito 13-14 miliardi di dollari nelle sue ricerche. Nell’atto di citazione si legge che «gli analisti stimano che OpenAI nei prossimi anni aggiungerà tra i 30 e i 40 miliardi di dollari al fatturato di Microsoft».
Tracey Cowan, partner dello studio Clarkson, dice a Panorama che «i partecipanti alla class-action aumentano di giorno in giorno, e in tutti gli Stati Uniti». Alla causa contro OpenAI è appeso il futuro dell’Intelligenza artificiale e il rispetto delle regole da parte di chi intende trasformarla in business. Che vada in porto, insomma, conviene un po’ a tutti noi.