Ricordate quando dicevano che i sospetti su Hunter Biden erano tutte teorie del complotto? Beh, le cose non stavano esattamente così. Il figlio dell’attuale presidente americano ha deciso di dichiararsi colpevole di due reati fiscali, inerenti al mancato pagamento dell’imposta federale sul reddito. Non solo. Ha anche raggiunto un accordo in relazione all’accusa di possesso illecito d’arma da fuoco. Il suo legale ha fatto sapere che, adottando questa linea, Hunter spera di “risolvere” l’inchiesta penale a cui era sottoposto dal 2018 da parte della procura federale del Delaware. Ogni possibile intesa di patteggiamento per scongiurare la prigione dovrà comunque ottenere l’approvazione di un giudice federale. Quindi, almeno sulla carta, Hunter rischia il carcere: una pena massima di dodici mesi per ciascun reato fiscale e una di dieci anni per l’altro capo d’imputazione. “Un giudice del tribunale distrettuale federale determinerà qualsiasi sentenza dopo aver preso in considerazione le linee guida sulle sentenze degli Stati Uniti e altri fattori legali", ha affermato l'ufficio del procuratore federale del Delaware, David C. Weiss.
Joe Biden si è trincerato dietro un imbarazzato comunicato. “Il presidente e la first lady amano il loro figlio e lo sostengono mentre continua a ricostruire la sua vita. Non avremo ulteriori commenti”, ha affermato in una nota il portavoce della Casa Bianca, Ian Sams. Donald Trump, dal canto suo, è andato prontamente all’attacco. “Wow! Il dipartimento di Giustizia corrotto di Biden ha annullato una possibile condanna di centinaia di anni dando a Hunter Biden solo una multa stradale: il nostro sistema è a pezzi”, ha tuonato l’ex presidente. Una linea, sposata anche da molti parlamentari repubblicani, secondo cui il Dipartimento di Giustizia si sarebbe mostrato non troppo severo nei confronti del figlio di Biden. Non dimentichiamo inoltre che, il mese scorso, un funzionario dell’Agenzia delle entrate americana, Gary Shapley, aveva denunciato delle interferenze nell’inchiesta penale su Hunter da parte dello stesso Dipartimento di Giustizia: Dipartimento che, ricordiamolo, è guidato da Merrick Garland, il quale fu nominato procuratore generale dallo stesso Joe Biden nel gennaio del 2021.
Ovviamente è bene sottolineare che la responsabilità penale è personale. Tuttavia la situazione di Hunter difficilmente non indebolirà Biden nella sua corsa per la riconferma l’anno prossimo. L’attuale presidente ha sempre difeso suo figlio e le accuse di interferenza sull’indagine da parte del Dipartimento di Giustizia non possono certo passare inosservate. Inoltre desta perplessità la severità e la celerità con cui quello stesso Dipartimento ha incriminato Trump, a fronte della lentezza e dell’indulgenza mostrata nei confronti di Hunter. Quanto accaduto è di fatto un assist all’ex presidente, che punta a difendersi dalla recente incriminazione del procuratore speciale Jack Smith, scommettendo tutto sulla tesi della faziosità e della persecuzione giudiziaria. Trump, che negli ultimi giorni era finito in una situazione oggettivamente molto complicata, adesso ha la possibilità di tornare pienamente in pista. Questo non vuol dire che i suoi guai giudiziari non siano per lui pericolosi. Vuol dire però che la sua narrazione di un Dipartimento di Giustizia, mosso dal doppiopesismo, si è oggi rafforzata.
Ma non è tutto. Eh sì, perché i deputati repubblicani sono intenzionati a proseguire le loro inchieste parlamentari sulla famiglia Biden. La commissione Sorveglianza della Camera è in trattative per far deporre Devon Archer: ex socio di Hunter che, se decidesse di testimoniare, potrebbe fornire preziose rivelazioni sui controversi affari del figlio di Biden in Ucraina, Russia e Cina. Ricordiamo inoltre che esiste un documento in mano all’Fbi, secondo cui Joe e Hunter avrebbero ricevuto cinque milioni di dollari a testa dal fondatore della controversa azienda ucraina Burisma, Mykola Zlochevsky, per ottenere in cambio il licenziamento dell’allora procuratore generale ucraino, Viktor Shokin, il quale aveva indagato proprio su Burisma per corruzione: quello stesso Shokin che, a marzo 2016, fu effettivamente cacciato dietro pressioni di Biden sull’allora presidente ucraino, Petro Poroshenko. Hunter fu nel board di quell'azienda dal 2014 al 2019, mentre tra il 2017 e il 2018 guadagnò 4,8 milioni di dollari attraverso l’allora colosso cinese Cefc: società, legata all’Esercito popolare di liberazione, che intratteneva rapporti con il Cremlino. Senza poi trascurare che, secondo un report dei senatori repubblicani, Hunter avrebbe anche ricevuto 3,5 milioni di dollari dalla moglie dell’ex sindaco di Mosca, Elena Baturina, nel 2014. Va da sé che quanto accaduto ieri rinfocolerà l’attenzione sui controversi affari internazionali del figlio di Biden. Tutto questo, mentre l’Fbi si rifiuta ancora di pubblicare in modo definitivo e integrale il documento che proverebbe la presunta corruzione di Joe e Hunter: una reticenza che alimenta ancora di più il sospetto di doppiopesismo da parte del Dipartimento di Giustizia.
E allora è chiaro che questa situazione rischia di danneggiare seriamente l’attuale inquilino della Casa Bianca. Biden sconta già enormi difficoltà nei sondaggi e ha contro di sé una parte consistente della sinistra dem. Tutto questo, mentre Hunter è il primo figlio di un presidente in carica a riconoscersi colpevole di reati federali. La credibilità di Biden ne esce compromessa e la sua posizione all’interno dello stesso Partito democratico potrebbe farsi ancora più traballante. La riconferma dell’attuale presidente oggi è a rischio. Come, forse, non lo è mai stata.