Arridateci i muri. Non riesco a capire questa mania di volerli sempre tirare giù. «Abbattiamo i muri», «Basta muri», «Costruiamo un mondo senza muri». Ma ne siamo sicuri? I muri, e le mura, sono da sempre un segno di civiltà. Le comunità si sono sviluppate sotto le mura. O meglio: dentro le mura. Protette dalle mura. E poi pensateci: quando torniamo a casa, alla sera, dopo una giornata di lavoro, non siamo forse sereni fra le «nostre quattro mura»? Che cosa c’è di più rassicurante? Le nostre «quattro mura». Le pareti servono a dividere l’esterno dall’interno, il bagno dal salotto, i malintenzionati dalla nostra quiete, gli odori di cucina dalla camera da letto. Servono a darci conforto, sicurezza, vita. Se non avessimo i muri o le mura saremmo tutti più deboli. Indifesi. Esposti. E allora perché tutti, oggi, li vogliono abbattere?
Prendete gli uffici. Da anni ormai è invalsa la pratica di abbattere sistematicamente i muri. Si chiama open space, e anche se da qualche tempo la pratica mostra un po’ la corda, come la moquette degli anni Settanta, continua ad andare inspiegabilmente per la maggiore. C’è chi, come il capo di Facebook Mark Zuckerberg, ne ha chiesto uno (ovviamente a un archistar, e a chi se no?) per ospitare tremila ingegneri. Praticamente una piazza d’armi pullulante di teste che dovrebbero pensare insieme (ma come?). E proprio in questi giorni il Politecnico di Milano ha lanciato la rivoluzione dei suoi edifici per cancellare gli uffici e disegnare «spazi nuovi per il lavoro condiviso, ibrido, informale», sottraendo «spazio individuale a favore di spazio collettivo». Niente di meno.
E se lo fa il Politecnico di Milano, punta di diamante della cultura scientifica italiana, perché gli altri devono restare indietro? Avanti, si proceda sulla stessa strada, come con i pantaloni a zampa d’elefante e le canzoni dei Dik Dik. Niente uffici, niente pareti che separano le scrivanie, niente porte che si aprono e si chiudono: tutto deve continuare a essere aperto, visibile, udibile, disponibile. Nessuna riservatezza, nessuna privacy. Tutto democratico, comunitario, «spazio collettivo», «ibrido, informale» e perché no?, anche economico (nulla mi toglie dalla testa, infatti, che quando le grandi aziende partono in queste crociate di rinnovamentonon siano mosse da spirito altruistico, ma dall’esigenza di risparmiare costi).
Basta guardarsi attorno però per capire che i dubbi sugli open space stanno crescendo in tutto il mondo. L’esperienza non ha dato i frutti sperati. O meglio: forse li ha dati per il risparmio dei costi. Non di quello del rendimento del lavoro. A Harvard hanno appena pubblicato uno studio secondo cui gli open space «innescano il rifiuto di relazioni sociali» e annullano i rapporti personali, tanto che anche i vicini di scrivania comunicano solo via chat. Secondo quest’indagine, inoltre, il 30 per cento delle persone che lavorano in open space si distrae, il 31 per cento si sente in difficoltà a esprimere il proprio parere e il 50 per cento lamenta come un problema la mancanza di privacy. Un’altra analisi della Cornell University sostiene che il rumore degli spazi comuni riduce la produttività del 66 per cento. Senza contare la maggior diffusione di microbi, e dunque di malattie, e l’inibizione delle persone «ad alta sensibilità» (Hsp, highly sensitive person), di solito le più geniali, di solito le più bloccate negli open space. Al che viene il dubbio: ma al Politecnico le avranno lette queste ricerche? O la punta di diamante della cultura scientifica italiana è rimasta alla moquette e ai pantaloni a zampa d’elefante?
Il sospetto c’è visto che il progetto non è nuovo e sconta i soliti ritardi italiani nella realizzazione. Ma non vorremmo che tutto ciò fosse anche influenzato da quella ideologia contro i muri che in Italia è più forte che mai. Per capirlo basta passare dagli uffici agli Stati, dalle scrivanie ai confini: la Spagna si difende con le mura a Ceuta e Melilla, la Grecia costruisce un muro verso la Turchia, la Danimarca e l’Austria progettano di alzare muri per difendersi (e intanto si portano avanti con il filo spinato). In Italia, invece, è vietato parlare di muri per fermare gli immigrati anche laddove (come in Friuli-Venezia Giulia) si potrebbero costruire. Perché? Forse perché c’è la Chiesa che si oppone? Anche questa è singolare: la Chiesa invita ad abbattere muri. Ovviamente lo fa riparandosi dietro i muri del Vaticano.
Per questo vorrei fare un appello in favore di ogni parete. Non abbattetela. Tiratela su. Serve. Serve tra un ufficio e l’altro, tra una stanza e l’altra, tra un Paese e l’altro. Serve per tenere lontani i colleghi rumorosi così come gli ospiti sgraditi. Serve perché senza siamo tutti più deboli, in ufficio come nella vita. E se qualcuno non è d’accordo, mi attacchi pure. Mi riparerò dietro un muro, sperando che nessuno mi ci schiacci sopra (come capita spesso ai grilli parlanti).
