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Noi e Berlusconi: dalla diffidenza alla seduzione. Viaggio controverso per rifare l’Italia

Quel parvenu, l’uomo più ricco d’Italia, che scende in campo per “salvarci”? All’inizio non la prendemmo benissimo, oggi possiamo dirlo. Pur riconoscendo la statura del capitano d’industria coraggioso, che avrebbe cambiato per sempre la storia del dopoguerra. Lasciando un’eredità ingombrante e preziosa. A noi, cresciuti a pane e politica, figli della generazione dei vinti,  vittime sacrificali negli anni di Piombo, giovani pionieri in piazza negli anni ’80 per uscire dalle fogne (ben prima che il Cavaliere ci “sdoganasse”), quel successo clamoroso alle elezioni del ’94 di un partito appena nato confuse.

Il capitano d’industria che scende in campo per ‘salvarci’

Per noi cresciuti ad Almirante e Rauti, a passare giornate tra riunioni, riflessioni politiche (altro che arretratezza culturale) e affissioni, quell’uomo del fare sembrava venuto da Marte, un vincente che quasi si beffava senza volerlo dei nostri decenni nell’ombra. Sentimenti contrastanti: la soddisfazione inaspettata per le parole a sostegno di Fini, ancora missino, nel derby capitolino con Rutelli, si mescolava alla cautela, all’attesa. Ma subito dopo prevalse la seduzione verso chi si mostrò pronto a rimboccarsi le maniche per risollevare l’Italia (lui la percepiva come un’azienda, noi la chiamavano nazione), che si candidava a fare da diga ai comunisti, appena lambiti da Tangentopoli mentre la prima repubblica veniva giù con i suoi cascami. Abbattuta da Mani pulite ma anche consunta dall’interno. La vittoria alle urne ci dette la sensazione plastica, a partire dallo stupore nei seggi elettorali (tutti quei mucchietti di schede mai visti), di un cambiamento epocale. Niente sarebbe stato più come prima. Affiorava e si radicava la sensazione di una bottiglia finalmente stappata. L’istantanea del primo governo di centrodestra della storia repubblicana, il tailleurs giallo di una sorridente Adriana Poli Bortone ministro dell’Agricoltura, il sorriso scamiciato di Pinuccio Tatarella. “Noi ministri?”. Incredibile, inaspettato. Meritato.

A Fiuggi la celebrazione di un mutamento antropologico

Andammo a Fiuggi con la voglia di suggellare un passaggio per molti machiavellicamente obbligato, un po’ ubriacati dai riflettori della stampa nazionale e non solo, che fino ad allora ci avevano riservato spazi da riserva indiana. Per tanti di noi, invece, fu il battesimo di un nuovo corso coerente con la mutazione antropologica già in atto da tempo, che aveva infastidito una parte della anchilosata nomenclatura missina. Lasciare la casa del padre per una casa più grande, tra mal di pancia e lacrime, convinse quasi tutti. Berlusconi si dimostra tutt’altro che un parvenu. Un presidente del Consiglio di razza e coraggioso. Fin dagli esordi, quando respinge le polemiche sulla presenza della pericolosa destra a Palazzo Chigi. Imprenditore prestato alla politica? Non proprio. Perché sa trasferire a tempo di record organizzazione, progetti, codici del mondo imprenditoriale nel Palazzo, scardinandone le regole decennali. Con notevoli contraccolpi, alcuni discutibili.

Il flop del partito azienda, il carisma del Cavaliere

Il partito azienda, selezionato con un casting inaccettabile per chi veniva dalla Frattocchie (anche a destra), si rivelò un flop sanato dall’incontenibile carisma del Cavaliere, che decapitò per sempre la dialettica tra partiti per inaugurare la leadership personale. Vincente, teatrale, a tratti scaltro, di una scaltrezza mitigata dalla sua empatia. Come quando si presentò al congresso di Verona di An con il suo carico di doni: decine e decine di copie del Libro nero del comunismo da regalare ai delegati. Una provocazione. Era l’epoca della Bicamerale per la riforma costituzionale, Fini e D’Alema erano a un soffio dall’accordo. Un colpaccio di immagine. Lui, craxiano doc, viene a insegnare al popolo post-missino le sciagure del comunismo e della dittatura rossa? I crimini compiuti dai regimi comunisti nel mondo, le repressioni, i genocidi, le esecuzioni..

La persecuzione delle toghe e il corto circuito

La persecuzione delle toghe, che solo gli antiberlusconiani più patetici ancora tentano di negare, porta al corto circuito. Al derby arcitaliano tra difensori della vittima e aguzzini del criminale. La narrazione della sinistra conquista l’opinione pubblica. E lambisce un pezzo di destra. Qui non attecchisce l’idea del pericolo dell’uomo solo al comando, il rischio della tirannide, la baggianate sulla democrazia in pericolo. Ma si affaccia il sospetto, l’insoddisfazione e l’imbarazzo per leggi ad personam, il conflitto di interessi. Il sogno liberale, il protagonismo in politica estera, la visione di una nuova Italia orgogliosa di sé, al netto di una certa dose di demagogia da capopopolo, l’economia che riparte dalla rete di imprese grandi e piccole che rappresentano l’unicità della laboriosità italiana: c’è tanto a ripagare la traversata nel deserto. L’ostinata, viscerale, ideologica guerra contro il Cavaliere nero ha fatto il resto. L’innata partecipazione al destino dei vinti e degli oppressi lo rende ai nostri occhi un grande perseguitato. Perché grande disturbatore. E fuoriclasse, E quasi gli perdoniamo il dirigismo indigesto, l’eccessivo personalismo, il riformismo zoppo, il partito di plastica (che poi seppe diventare “pesante” guardando alla nostra tradizione), le corna nelle foto ufficiali nei consessi internazionali. E le troppe barzellette.

La radicalizzazione delle posizioni: o di qua o di là

L’escalation di accuse, le olgettine, Ruby, lo spread, divide ma rafforza insieme l’appartenenza a un campo. La radicalizzazione delle posizioni impone una scelta: o di qua o di là. O con Berlusconi o contro. L’altra metà del campo, accecata e ossessionata dal “Caimano”, non colpisce, fa breccia ma non chiude mai la partita. È lo stesso accecamento che porta Letta pochi mesi fa al disastro elettorale. La crociata contro Berlusconi negli anni cambia obiettivo: prima Salvini e poi di Meloni. La sinistra, non solo politica, insegue gli spettri del fascismo, cavalca l’anti-storia,  si trastulla nell’allarme per il pericolo sovranista. Celebrando il divorzio definitivo con la società, con il popolo, con la gente. Sempre mal tollerata nel nome di una superiorità ontologica estranea a Berlusconi. Vincente ma mai sprezzante, coraggioso e mai tracotante.

Il flah mob sotto il Quirinale dopo le dimissioni

Dalle stelle dei bagni di folla alle stalle della ‘cacciata’ dal Senato. Il ritiro del passaporto, i servizi sociali per ‘espiare’ la condanna. Complicato dare un giudizio perché Silvio Berlusconi era complicato. È stato un unicum. Certo, in tanti abbiamo pensato che avrebbe dovuto uscire dalla scena politica in un altro modo. Con l’umiltà del grande artista che sa ritirarsi quando la fama e la popolarità sono alle stelle. Che avrebbe dovuto fare spazio ai giovani, anche a quelli senza pullover blu marine. Ma per il Cavaliere-Higlander questo non era neppure concepibile. Fiutammo subito il complotto che si consumava fuori dai confini nazionale per disarcionarlo e farci tornare indietro di decenni. E quando, nel novembre 2011, fu costretto a dimettersi, assalito dalle accuse di aver portato l’Italia a un passo dal default, non abbiamo esitato un momento sul che fare. Il Cavaliere sale al Colle, esce da un’uscita secondaria. Fuori qualcuno festeggia, pronto al lancio di monetine, le stesse che riservò a Craxi. E noi? Di getto, senza aspettare ordini di partito, partimmo in direzione del Quirinale, Giorgia Meloni era lì. Un presidio  arrabbiato, molto arrabbiato, sotto casa di Napolitano per chiedere il ritorno alle urne. Che non ci sarà.

Da allora nulla fu più come prima

Poi il ritorno mesto, uno sguardo fugace al portone di via del Plebiscito. Ma la storia non finisce lì. Dalla fusione a freddo nel Popolo della libertà nasce una nuova destra, contagiata dal liberale visionario, e per questo poco incline a subire le regole della vecchia politica. La destra storica prende la porta e cambia strada. Ne inventa una nuova. E Berlusconi è ancora lì. Vigila, sorveglia, consiglia. Magari disturba ma non molla. Neppure da un letto di ospedale. Ci dicono che in queste ore guardasse alle prossime europee con la stessa baldanza con cui lanciò la sfida della discesa in campo. E in effetti la posta in gioco a Bruxelles è gigantesca. Da allora nulla fu più come prima. Ora è difficile pensare a un’Italia senza Berlusconi, lo hanno detto in molti, ma è banalmente così. Di scossoni così profondi la storia non ne riserva tutti i giorni. E in questo Berlusconi-Higlander ha già vinto.

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