«Neppure a 60 anni di distanza posso dimenticare quei corpi appesi ai rami degli alberi. Come stracci… ma umani». Renato Bogo, di Belluno, 81 anni, allora caporal maggiore, è stato tra i primi alpini ad arrivare a Longarone la notte del Vajont. Ed oggi testimonierà su quel particolare fronte della solidarietà all’inaugurazione della mostra a Palazzo Bembo. Taglio del nastro alle 16, poi la mostra sarà aperta dal 10 al 16 giugno dalle 16 alle 19, sabato 17 e domenica 18 10-13 e 16-19.
Lei dov’era quella sera del 9 ottobre 1963?
«Sono rientrato in caserma poco dopo le 10. La tragica notizia – di un disastro, non meglio precisato – era appena arrivata. Facevo parte della segreteria del comandante e gli ho telefonato. Il maggiore del 7° Alpini, Roberto Marchio, mi disse di andarlo a prendere a casa, a Castion. Partimmo con l’autista e, una volta preso a bordo, ci fiondammo verso Lomngarone. A Fortogna fummo costretti a fermarci. Lasciammo l’autista a custodia della jeep e ci inoltrammo lungo la ferrovia. La strada era impraticabile».
La ferrovia in quali condizioni si trovava?
«Già tra Ponte nelle Alpi e Fortogna avevamo trovato montagne di detriti, animali gonfi d’acqua, corpi abbandonati, devastati dall’onda e trascinati dalla corrente del Piave. A Pirago salimmo sulla ferrovia; non restava che un ferro contorto, braccia metalliche protese verso l’alto ad implorare anch’esse un aiuto impossibile».
A piedi dove arrivaste?
«Fino nella parte alta di Longarone. La notte era splendida, mai vista una luna così bella, la temperatura tiepida, seppur a ottobre inoltrato. Chi incontravamo sapeva solo dirci che era venuta giù la diga. Ma avvicinandoci a Longarone vedevamo la diga ancora in piedi e non ci spiegavamo che cosa fosse accaduto. Certo, qualcosa di grave di sicuro. Ce ne rendemmo conto quando all’altezza del cimitero abbiamo visto le tombe squartate, le povere casse divelte. Scene che mai dimenticheremo. Come i primi cadaveri in paese».
A Longarone avete trovato i primi soccorritori?
«Sì, c’erano carabinieri arrivati dal Cadore e dallo Zoldano, oltre che saliti dalla Valbelluna. Ma i primissimi, insieme a qualche alpino. Siamo scesi nel deserto di ghiaia, sul Piave, e le scene erano raccapriccianti. Non si aveva, in quei minuti, nemmeno la forza di organizzare qualche aiuto. Abbiamo atteso le prime luci dell’alba per coordinare gli aiuti. Io sono rimasto sul posto per una ventina di giorni, per fare da ponte tra il Comando e le varie batterie di alpini, portando gli ordini».
Col passare delle ore, quanti alpini della Cadore intervennero?
«Ben 3.488 militari – giovani di leva, sottufficiali e ufficiali – con altri volontari che in 38 lunghi giorni scavarono spesso a mani nude per estrarre i corpi delle vittime dal fango».
Il ricordo più tragico che mai dimenticherà?
«Porto negli occhi l’immagine di un bimbo, dal corpo ancora caldo, che abbiamo recuperato ormai senza vita da sotto le coperte rimboccate dalla mamma. Un corpicino incredibilmente ingrossato dall’acqua. Lassù, tra le case di Longarone. Quando mi capita di ritornare nella cittadina, mi ritorna lo strazio al cuore. E cerco sempre quel posto».
C’è chi sostiene che la Protezione civile è nata in quella circostanza, piuttosto che nel terremoto del Friuli.
«Certo che si. Due anni dopo il disastro noi alpini, una quindicina circa, ricevemmo un riconoscimento, per l’opera che prestammo: di volontariato. Ecco, quella certificazione che poi abbiamo passato ai nostri superiori l’abbiamo sempre intesa come l’atto di nascita della protezione civile, almeno quella alpina».
Quale lezione ha tratto da quella tragedia? È riuscito a trovare una qualche risposta per un disastro con 2 mila vittime?
«No, sinceramente non abbiamo mai trovato risposta. Almeno io, personalmente. Ma anche numerosi altri alpini. Ci siamo sentiti testimoni di una guerra silenziosa, combattuta senza armi e senza possibilità di vittoria, contro noi stessi e la nostra presunzione di poter dominare la natura».
Dopo 60 anni, il Vajont ha insegnato qualcosa?
«La solidarietà sì, il rispetto del creato no».
Al prossimo Raduno Triveneto degli alpini sarà rilanciato il servizio civile obbligatorio. Proprio finalizzato al consolidamento della Protezione civile. È d’accordo?
«Lo sto sostenendo ormai da una decina d’anni. Anzi, a mio avviso servirebbe un nuovo servizio militare per educare alla vita tanti giovani che oggi non hanno regole di riferimento. Comunque sarebbe già qualcosa poter contare su 6-8 mesi di “ferma” per imparare a comportarsi nelle situazioni di emergenza, magari anche per impratichirsi nella prevenzione, nella cura del territorio».
Suona ancora la tromba?
«No. E mi dispiace. All’età di 75 anni non mi sentivo in forze per affrontare tutti quei concerti. La tromba era più che una passione. La sogno ancora di notte».