È domenica, ultima giornata del festival, che alle 11.30, Benedetta Craveri riceve il premio èStoria alla tenda Erodoto di piazza Battisti a Gorizia. La kermesse non poteva davvero non attribuire il riconoscimento a una donna, nell’edizione dedicata alle figure femminili. La francesista dialogherà con Andrea Zannini anche sul suo ultimo libro “La contessa. Virginia Verasis di Castiglione” (Adelphi, pagg. 452, euro 24).
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Quali differenze hanno le autrici nella letteratura francese rispetto ad altri Paesi europei?
«Tutti i miei libri si sono occupati di figure femminili tra Sei e Ottocento non per partito preso. Non sono stata motivata da una metodologia di genere, o da un impegno di femminista militante. Sono piuttosto le donne che si sono imposte alla mia attenzione, perché nella civiltà francese di Antico Regime, al centro dei miei studi, esse hanno esercitato un ruolo centrale».
Per quali motivi?
«Anche se in Francia, come nel resto d'Europa, le donne vivevano in condizione di assoluta sudditanza e, sottoposte all'autorità dei padri e dei mariti, non decidevano del loro destino, nel mondo della nobiltà godevano di un trattamento privilegiato».
Perché?
«Fin dalla civiltà cortese la nobiltà aveva idealizzato la figura della donna e l'aveva investita di una missione civilizzatrice. Non solo, a differenza dei Paesi protestanti o ultra cattolici che relegavano le donne alla vita domestica, le aristocratiche francesi partecipavano a pieno titolo alla vita di società ma ne stabilivano le regole. Erano loro a decidere del codice di comportamento, delle buone maniere, dei divertimenti, delle mode e a dettare legge in materia di buon gusto, di letteratura di poesia, di lingua. E non è un caso che nel corso del Seicento assistiamo in Francia alla nascita di grandi scrittrici, molto prima che altrove».
Può fare qualche esempio?
«La contessa di La Fayette che con “La principessa di Clèves” crea il romanzo psicologico moderno, e la marchesa di Sévigné, la più grande scrittrice epistolare francese. Assieme a Corneille, Racine, Molière, esse figurano infatti nel canone degli scrittori classici del Grand Siècle. Ed è emblematico che si tratti in entrambi i casi di aristocratiche. Come pure bisogna ricordare che è nella Parigi della metà del Seicento che nasce, con le Preziose, il primo movimento femminista moderno».
Allargando lo sguardo alla letteratura contemporanea, non solo a quella francese, oggi, tra uomini e donne, ci sono discriminazioni?
«Purtroppo il problema della discriminazione è tutt'altro che risolto anche in Europa, ma almeno in via teorica non penso che sul piano della vita intellettuale e artistica sia possibile fare distinzioni di genere. Già Cartesio affermava che la mente non ha sesso. Sono la mentalità, le circostanze politiche, le situazioni culturali, le ideologie a condurre il dibattito su uguaglianza e differenza, ma ogni scrittrice, ogni scrittore, per meritare questa qualifica, detiene una sensibilità, un immaginario, uno stile proprio e inconfondibile dove l'appartenenza di genere non è necessariamente qualificante».
Lasciando da parte il suo terreno di studi, lei ha avuto un nonno fuori dal comune: Benedetto Croce. Cos’ha rappresentato nella sua formazione?
«È stata per me una figura di riferimento imprescindibile e alcuni suoi libri sono stati determinanti per insegnarmi l'amore per la letteratura e la storia. I miei ricordi si limitano però all'infanzia perché Croce è morto quando avevo dieci anni. Durante le vacanze, andavo spesso a Napoli, a casa del nonno, dove vigeva un rispetto assoluto per le sue abitudini e la preoccupazione di evitare qualsiasi cosa potesse disturbare il suo lavoro. Ma quando usciva dal suo studio per il pranzo e la cena era un patriarca cordiale, affettuoso, ironico».
A èStoria parlerà della Contessa di Castiglione. Chi era?
«Un personaggio affascinante ed enigmatico; una grande attrice capace di interpretare molte parti e di cui è molto difficile cogliere l’identità. Inoltre ha creato lei stessa, quando ancora era in vita, la propria leggenda. La prima cosa che colpisce di lei è la sua audacia e la forza magnetica della sua seduzione. Quando nel 1856 Cavour e Vittorio Emanuele la mandano a Parigi con l’obiettivo di conquistare Napoleone III e di incoraggiare il suo sostegno all’Italia, ha solo diciotto anni e adempie al suo compito nel giro di pochi mesi. Ed è sbalorditivo come, arrivando nella moderna e fastosa Francia da una città provinciale come Torino, riesca, oltre che a svolgere una missione politica complessa, a imporsi come regina della moda».
In quale campo eccelleva?
«Aveva molte frecce al suo arco. In primo luogo, capisce che il futuro è quello delle immagini e che la fotografia costituisce il mezzo più sicuro per immortalare la sua bellezza. È l'unico caso di una persona che per quarant'anni andrà periodicamente a farsi ritrarre dallo stesso fotografo e i suoi scatti hanno cambiato la storia della fotografia. Non è solo l'oggetto dell’immagine ma ne è la regista, la scenografa, la costumista. È la prima a fare del suo corpo un oggetto artistico e non è un caso che Marina Abramović si ispiri ancora oggi alle sue foto. Inoltre è la prima a rompere tutti gli schemi di comportamento sociale della sua epoca anticipando la figura della star moderna. Ma il culto di sé non le impedisce di avere una intelligenza politica fuori dal comune e di metterla al servizio del proprio paese».