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Si può restare umani con l’intelligenza artificiale?

Difendere ciò che ci rende straordinari, la nostra creatività, è la sola resistenza possibile contro l’avanzata delle macchine. Ne è convinta Rahaf Harfoush, antropologa digitale e scrittrice bestseller. Già consulente di Barack Obama, suggerisce di fondare una cultura nuova per non essere travolti dal futuro.

Risponderà alle mail al posto nostro, lasciandoci scegliere tra un tono cordiale, scherzoso o arrabbiato. Assalterà ognuna delle nostre prerogative: l’intelligenza artificiale scriverà i documenti di lavoro, compilerà presentazioni e fogli di calcolo, personalizzerà lettere formali e d’amore, sbrigherà incombenze burocratiche assortite. Alleggerirà, presto, il bisogno e l’urgenza di pensare. Non c’è solo l’arrembante ChatGpt in questa corsa alla delega totale, ma un’intera galassia di servizi e applicazioni accesi dai vecchi colossi della rete, da Microsoft fino a Google, consapevoli che l’affare è troppo grosso per rimanere indietro, per non unirsi al coro degli annunci di un futuro automatizzato. creatività. Per tenerla sveglia, per quanto sembri controintuitivo, avremo bisogno di riposare. Di privilegiare, anche, l’inazione. Sarà prioritario, anzi già lo è, combinare attività febbrili e momenti salutari di disconnessione.

È la tesi del saggio Hustle & Float, tradotto in cinese e in francese, scritto dall’antropologa digitale Rahaf Harfoush, autrice inserita nella classifica dei libri bestseller del New York Times, collaboratrice della campagna che ha portato all’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, membro del consiglio nazionale che suggerisce al numero uno transalpino Emmanuel Macron quali politiche adottare in ambito tecnologico. Harfoush, siriana emigrata da bambina in Canada, incontra Panorama in videochiamata dalla sua casa poco fuori Lione, dove vive oggi. Sarà in Italia il prossimo 25 maggio come ospite d’onore della dodicesima edizione del Technology Forum di The European House - Ambrosetti, in programma a Stresa, sul Lago Maggiore. Il filo conduttore della due giorni di conferenze e incontri saranno proprio le urgenze dettate dall’innovazione.

Hustle & Float significa spingere e galleggiare. Harfoush, perché questo accostamento?

Viene dal kayak. Se remi troppo ti stanchi, commetti errori, è pericoloso. Se stai fermo a lungo, diventa noioso e il fiume decide dove farti andare, ti trascina via. La creatività, per fiorire, ha bisogno di entrambe le componenti. Il campione di basket Michael Jordan diceva che i suoi giorni di stacco erano più importanti di quelli sul campo perché gli permettevano di prepararsi a dare il meglio. Invece, noi ci svegliamo ogni mattina come se dovessimo giocare una finale.

A cosa si riferisce?

Alla propaganda della produttività, che viene equiparata al successo. Se vuoi meritartelo, allora sei obbligato a provarlo svegliandoti alle cinque, saltando il pranzo, lavorando fino a mezzanotte. Valutiamo con favore una performance quando è senza sosta. Ma così non diamo alla mente quello di cui ha bisogno per essere creativa, in primis l’assenza di stimoli martellanti.

L’intelligenza artificiale, in compenso, promette di liberarci da molte scocciature. Di alleggerirci anche in ufficio.

Quando sono arrivate le catene di montaggio nelle industrie, dicevamo che ci avrebbero fatto risparmiare tempo. È stato così, però abbiamo riempito quelle ore con occupazioni differenti. Non sono certa che l’Ai farà spazio al pensiero. Se non provvediamo a un riallineamento culturale, continueremo a faticare tanto quanto prima, impegnati in qualche altro lavoro.

Sul tema, dunque, lei è pessimista.

Sono dualista, penso che questa tecnologia sarà magnifica e orribile. Non vivremo né un’utopia, né una distopia, io la chiamo «duotopia». È la prima volta nella storia che ci troviamo di fronte a qualcosa che sarà d’enorme aiuto e, in egual misura, capace di generare scompiglio. Lo ripeto: i benefici saranno immensi, pensiamo solo alla capacità di trovare le cure per tante malattie.

E i danni?

Una generale mancanza di trasparenza. Non sappiamo da dove l’Ai trae le informazioni che ci restituisce, qual è la qualità e l’affidabilità dei dati su cui poggia, soprattutto chi li controlla. Stiamo entrando in un’epoca quantomeno ambigua.

Elon Musk è stato più netto di così. Ha detto che l’intelligenza artificiale ci colpirà come un asteroide.ci colpirà come un asteroide. Possiamo schivarlo?

Possiamo provarci, imparando dal passato. Le compagnie private non sono mai state in grado di regolarsi da sole. Abbiamo dovuto imporre loro di non mettere componenti chimici nocivi negli ingredienti, di non far lavorare i bambini nelle fabbriche, di non inquinare gli oceani con rifiuti tossici.

Cosa dovremmo imporgli adesso?

Di rendere palese come gli algoritmi prendono le loro decisioni, sottoporli alle indagini di ricercatori indipendenti che possano valutarne l’operato. Dovrebbero essere sicuri, etici, trasparenti. Al momento sono scatole nere.

Qual è la ragione di tanto scollamento tra buon senso e realtà?

Il concetto d’innovazione che abbiamo ritenuto valido negli ultimi 20 anni non funziona più. Poggia sul tentativo delle aziende di dominare il mercato, sulla ricerca del nuovo a tutti i costi, sull’essere «unicorni» miliardari, sul lanciare prima e preoccuparsi dopo delle conseguenze. Come società dobbiamo pretendere un aggiornamento della definizione d’innovazione e delle sue liturgie.

In Italia il Garante ha provato a bloccare ChatGpt, la vicenda si è risolta con una breve avvertenza sulla privacy da accettare prima di accedere al servizio.

La maggior parte dei consumatori non capisce il prezzo che paga usando alcuni di questi strumenti gratuitamente.

È una storia vecchia: nessuno legge i termini e le condizioni perché sono lunghi e criptici. Si accettano passivamente.

Allora rendiamoli intuitivi. Qualcuno ha provato a trasformarli in una sorta di etichetta nutrizionale con un punteggio di qualità, altri di riassumerli in pochi brevi punti essenziali. Ma pure se questa fosse la regola, andiamo verso una normalità in cui l’intelligenza artificiale sarà invisibile, sciolta nelle applicazioni e nei servizi che usiamo tutti i giorni. Dobbiamo prenderne il controllo o sarà la tecnologia a controllare noi.

La responsabilità è soprattutto delle istituzioni?

Serve un corpo ad hoc che se ne occupi, più commissioni, più persone incaricate. Magari abbiamo bisogno di un Chief artificial intelligence officer, un ufficiale pubblico incaricato di amministrare l’Ai. I tempi sono maturi, come lo erano nel 2008 quando la campagna presidenziale di Obama fu la prima a immaginare un Cto, un responsabile della parte tecnologica.

Cosa le è rimasto di quell’esperienza?

La consapevolezza che gli strumenti digitali possono essere usati per connettere le persone tra loro e far sentire la loro voce. È successo spesso, da allora: penso alle proteste in Iran amplificate su TikTok o, qualche anno fa, quelle turche su Twitter.

Lei è membro del consiglio digitale nazionale francese. Cosa dite al presidente Emmanuel Macron nei vostri incontri?

Che è fondamentale frequentare le strade virtuali per capirne davvero le sfumature. Tentare di regolare l’intelligenza artificiale senza conoscerla è come provare a gestire un quartiere cittadino senza averlo mai visto.

Alla «fomo», la fear of missing out, la paura costante di perdersi qualcosa online, lei nei suoi libri contrappone la «fopa». Di cosa si tratta?

Sta per future oriented present acting: significa muoversi oggi per quello che intendiamo raggiungere domani. Se ci aspettiamo di vivere in un mondo migliore, più verde, più equo, dipende soltanto dai singoli passi, dalle piccole scelte che compiamo ogni giorno. È un approccio che ci spinge a riprendere in mano il potere, ma anche ad assumerci la responsabilità che ne deriva. Siamo noi, ognuno di noi, a costruire il futuro nel quale vogliamo vivere.

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