Ogni anno si celebra il 25 aprile, ed è giusto così: è un giorno di festa e di speranza, di memoria per chi si è sacrificato per la libertà di tutti noi e di riflessione storica su cosa ha significato per il nostro Paese un ventennio di totalitarismo fascista, prima che la democrazia potesse per la prima volta essere costruita in Italia.
Ogni anno celebriamo la Liberazione in modo diverso. Intanto perché le tante resistenze che hanno costruito e reso reale la Resistenza vengono ricordate dando a volte più rilievo all’una o all’altra. E poi perché la memoria si nutre del contesto attuale, del modo in cui oggi lo spazio pubblico ricorda sia il fascismo sia la Resistenza. E nello spazio pubblico c’è inevitabilmente, direi necessariamente, posto per le forze politiche che stanno al governo.
Chi sono queste forze lo sappiamo, perché fanno parte da decenni del sistema di potere e di governo dell’Italia, come sappiamo cosa pensano del fascismo e della Resistenza. Proprio per questo non credo sia importante e necessario chiedere loro di dire cose diverse da quelle che pensano. Ma sia importante ricordare loro in ogni momento che se possono parlare, partecipare alla vita politica, governare, non è certo per merito dei loro simboli che tengono nascosti in casa e che non hanno più il coraggio di proporre come propri. Ma per merito di chi ha preso le armi contro le SS e l’esercito tedesco che occupava l’Italia e contro il regime più vigliacco e infame che si è insediato nel territorio italiano, quella Repubblica sociale la cui vergogna ha reso difficile e complicato nel dopoguerra l’inserimento dell’Italia nel novero degli stati democratici, nella comunità dei paesi liberi.
Oggi più che negli anni passati è importante ricordare i tanti modi in cui è stata combattuta la Resistenza: quella dei partigiani nelle montagne e dei gappisti nelle città; dell’aiuto e della solidarietà delle famiglie e delle comunità contadine nelle campagne e in pianura, dove era più difficile nascondersi; della resistenza militare come quella compiuta a Cefalonia e in altre zone; quella degli internati militari che hanno impedito, con il loro rifiuto e il coraggio di restare a soffrire nei campi di prigionia, di ingrossare le file dell’esercito di Salò e di aiutare le truppe naziste; la resistenza dei patrioti non violenti che hanno aiutato i prigionieri di guerra a nascondersi e fuggire, permesso alla resistenza armata di avere comunicazioni e logistica per la loro azione, rappresentato spesso il terreno di contatto tra Alleati e partigiani; la resistenza, perché lo fu, dei deportati politici, razziali, civili; quella dei tanti ex prigionieri di guerra o disertori delle armate tedesche che hanno contribuito a rendere internazionale la natura della Resistenza anche in Italia, con combattenti di oltre una ventina di paesi; ma soprattutto, perché è stata a lungo rimossa e poco considerata, la Resistenza delle donne, sia di quelle che hanno combattuto con le armi che di quelle che hanno corso rischi forse ancora maggiori facendo le staffette e tenendo le comunicazioni tra tutte le forze che combattevano il nazifascismo, mantenendo al tempo stesso coesa e salda la società civile nei diversi territori allargando il perimetro di chi si opponeva o comunque non collaborava con gli occupanti.
E naturalmente i soldati Alleati e i militari italiani inquadrati al loro fianco, perché, come scrisse il capo della Resistenza italiana Ferruccio Parri “sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice. Dietro di essi abbiamo vinto anche noi. Non è stato un miracolo, ma è stato il riscatto di fronte al mondo e all’avvenire dell’onore nazionale”.
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