foto da Quotidiani locali
Un museo e un atelier nella palazzina 11 dell’ex manicomio di via dei Toscani, di proprietà dell’Ats, per dare visibilità ad arte ed umanità nascoste e da tempo escluse dalla vita cittadina. È la proposta di Giovanni Rossi, primario di psichiatria in pensione e oggi presidente dell’associazione di volontariato “Mi riguarda - Rete 180”. Una proposta che ha la sua forza nell’idea di recuperare la produzione degli atelier dell’Opg di Castiglione, di quello di Rossonano, di quello del Centro psicosociale di Mantova e del laboratorio Lao e nella volontà di produrre nuova arte in uno spazio oggi inutilizzato. Ma è anche un’idea che al momento non può vantare quella disponibilità finanziaria che meriterebbe.
«Dopo l’Unità d’Italia - spiega Rossi - la città si è espansa al di là dei laghi e fuori dalle mura, che la rendevano città fortificata. L’espansione assolse, tra le altre, alla funzione di tenere fuori quanti avrebbero potuto introdurvi fattori di disordine. Furono i poveri senza casa espulsi dal centro cittadino per i quali venne aperto il Villaggio di Casette popolarissime. Furono le persone malate, curate nel nuovo Ospedale Civile. Furono le persone affette da alienazione mentale, pericolose a se o agli altri e di pubblico scandalo, tenute dentro l’Ospedale Psichiatrico».
La memoria, secondo Rossi, deve rivolgersi anche a quelle periferiche vicende. «Ne consegue la necessità di completare il sistema museale della città - prosegue Rossi - con una sezione dedicata alle istituzioni, ed alla vita delle periferie. La questione dei ghetti non fu risolta con lo sventramento del Ghetto ebraico, nel centro della città. Altri, diversi ghetti, isolati dal centro urbano, seppur in modi differenti, sorsero oltre la cinta delle mura. In ogni ghetto l’isolamento generò una nuova forma di vita autonoma».
Esemplare la vicenda dell’Ospedale psichiatrico. Mondo separato, progettato come villaggio autosufficiente per una popolazione di circa mille persone che lì avrebbero vissuto per anni. La chiusura dell’istituzione manicomiale non è stata conseguenza di un evento istantaneo: si è trattato di un processo durato più di trent’anni. In questo processo sono state coinvolte le persone internate ed i lavoratori del Dosso, con il contributo di moltissimi cittadini, alcuni con ruoli istituzionali decisivi, altri per pura partecipazione ed interesse personale. «Il processo locale - dice Rossi - è stato parte di un più ampio movimento nazionale nel quale è stato declinato in forme innovative il rapporto tra ricerca scientifica e pratica sociale. Per questa ragione l’ipotesi progettuale non può limitarsi alla documentazione storica. Se fosse così farebbe torto alla storia stessa che si vorrebbe raccontare, che non fu statica, ma dinamica. Tante persone ne furono attrici accompagnando il grande cambiamento con piccoli cambiamenti quotidiani».
Come una condizione statica possa trovare in sé la dinamica per cambiare è ben rappresentato dalle esperienze artistiche che si condussero nell’ospedale psichiatrico. «Persone desocializzate che, svestito l’abito della malattia, trovavano in sé e nelle tecniche apprese la forza di rappresentare artisticamente il proprio rapporto con il mondo. La storia di quei mondi separati può essere raccontata attraverso la produzione degli artisti che sono stati attivi nelle istituzioni psichiatriche mantovane. La parte museale andrà messa in continuità con uno spazio creativo, un laboratorio delle arti plastiche, audio-visive e digitali che dovrà mantenere il dinamismo dell'esperienza».