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Giappone, sfida per il crimine

Un’indebolita Yakuza oggi se la vede con l’ascesa della malavita portata dagli immigrati. La posta in gioco: il controllo dei business illegali nel Sol Levante.

Giappone tutti ricordano l’assassinio dell’ex primo ministro Shinzo Abe da parte di un fanatico esponente di una setta, lo scorso luglio: gli sparò con un’arma improvvisata mentre il premier teneva un comizio elettorale. Ma sebbene la violenza in diretta televisiva abbia sconvolto il Paese, non è il terrorismo politico la maggiore preoccupazione del governo giapponese. Piuttosto, la minaccia è rappresentata dallo scontro sempre più cruento tra gang legate alla criminalità organizzata, complici tra l’altro dell’aumento del tasso di omicidi, che prosegue un trend che ha conosciuto negli ultimi vent’anni un balzo dell’8,1 per cento.

Nello specifico, a preoccupare è la lotta senza quartiere tra la mafia locale - la famigerata «Yakuza» - oggi in declino, e i cosiddetti «Draghi cinesi», termine con cui si indicano i sottogruppi criminali di immigrati provenienti dalla Cina che sin dagli anni Ottanta hanno fatto base nelle isole del Pacifico e, in Giappone, presidiano stabilmente il distretto di Kasai, a Tokyo. Le loro origini si fanno risalire alla volontà degli immigrati di origine cinese di proteggersi dalla discriminazione dilagante nei loro confronti. Col tempo hanno pertanto creato una sorta di servizio di sicurezza della minoranza etnica, che presto si è trasformato in un vero e proprio corpo paramilitare con finalità criminali. Molti dei loro membri sono «Chugoku zanryu koji», ovvero figli e nipoti di cittadini giapponesi rimasti in Cina alla fine della Seconda guerra mondiale, che hanno fatto rientro in Giappone ormai da adulti, dopo la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Se la loro influenza e attività rimangono localizzate e sottotraccia, la Yakuza è invece notoriamente una potente confederazione di sindacati vocata alle attività tipiche della organizzazioni criminali, con profonde ramificazioni in tutto il Paese.

Ma la concorrenza, come si diceva, non manca: oltre ai Draghi cinesi, in tutto il Giappone si vanno diffondendo altre «mafie». Quella coreana per esempio, la Kkangpae, la cui espansione internazionale è legata alle comunità di espatriati all’estero. Un’organizzazione criminale focalizzata sulla gestione del pizzo, sull’usura, sui traffici illegali di beni di lusso e persino sui servizi di sicurezza privata. Nel Sol levante sono poi presenti componenti iraniane, che si dedicano allo spaccio al dettaglio di kakuseizai (droghe stimolanti) per le strade delle metropoli, e nigeriane, esperte nel traffico di droga e uomini, e nel riciclaggio di denaro. Tutte realtà minori, che però hanno rialzato la testa negli ultimi dieci anni e oggi intendono colmare il vuoto lasciato dalla storica mafia giapponese, sempre più divisa e meno attrattiva per le nuove generazioni anche a causa della rigidità dei codici d’onore da rispettare, che prevedono che gli «sgarri» siano pagati col sangue, alla stregua di Cosa nostra in Sicilia.

Così la Yakuza è andata ridimensionandosi, passando dagli oltre 80 mila membri del secolo scorso a meno di 23 mila affiliati. Inevitabile conseguenza: la progressiva riduzione del loro controllo territoriale e la parallela emersione di altre organizzazioni criminali esogene, liberate dal potere coercitivo di una mafia che non si cura più dei delitti minori. Non è un caso se questi fattori stanno generando sempre più spesso scontri all’arma bianca e violenze diffuse in tutto il Giappone per il controllo delle piazze di spaccio, del pizzo e dell’ordine pubblico. Secondo gli ultimi dati forniti dalla polizia, è proprio questo «ricambio malavitoso» ad aver comportato per la prima volta in vent’anni un aumento del numero di crimini registrati in Giappone: nel 2022 ne sono stati commessi 601.389, con un’impennata del 5,9 per cento rispetto al 2021. Particolarmente in ascesa il numero di frodi (salito del 28,2 per cento a 36,14 miliardi di yen ovvero 281 milioni di dollari), delle violenze in strada e degli attacchi informatici ransomware contro aziende e organizzazioni (aumentati del 57,5 per cento).

Paradossalmente, il potere territoriale che esercitava la Yakuza è sempre stato garantito dalle leggi giapponese, secondo cui una simile realtà non era illegale e, anzi, aveva persino uno status riconosciuto quale ente di fatto. Al punto che i membri dell’organizzazione disponevano di uffici di rappresentanza e la loro presenza era visibile a occhio nudo in molte città, anche in ragione degli elementi che li hanno sempre contraddistinti, come i tatuaggi rituali diffusi su tutto il corpo. D’altro canto le origini della Yakuza affondano fino al XVII secolo. A permettere all’organizzazione di rimanere a lungo in un alveo di connivenze diffuse e timore reverenziale, è stata la condizione di semi-liceità che le è sempre stata garantita: il rapporto della mafia giapponese con le autorità (che ben conoscono il loro codice d’onore), infatti, non è stato quasi mai conflittuale, anche perché gli affiliati nel compiere atti criminali non hanno mai voluto interferire con l’ordine pubblico e le forze di polizia.

In altre parole, è stata considerata un «male necessario». Al punto che il suo coinvolgimento in attività criminali è sempre stato tollerato per la capacità coercitiva che ha permesso ai suoi membri di monopolizzare e controllare l’intera malavita giapponese, frenando gli eccessi di bande meno organizzate e gruppi stranieri (come appunto i «Draghi»); cosa che è stata percepita dallo Stato come una circostanza rassicurante o, quantomeno, tollerabile. Tradizionalmente, controllava il gioco d’azzardo, ma durante l’ascesa economica del Giappone degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso ha sviluppato grandi business anche nel settore immobiliare, nella manipolazione del mercato azionario, in ogni traffico illegale possibile (in questo caso, in accordo con altre organizzazioni criminiali internazionali), nel riciclaggio e nella gestione diretta di aziende del tutto legali. Una «pax» interrotta solo dalla «Yama-ichi koso»: una sorta di disfida tra due famiglie rivali della Yakuza che quarant’anni fa causò decine di morti.

Al termine della guerra, un accordo di pace ha garantito il ritorno alla normalità. Ma a quel punto lo Stato è dovuto intervenire, introducendo leggi anti-Yakuza che di fatto hanno costretto l’organizzazione alla clandestinità cui si è presto associato un prolungato declino, concomitante con la prima vera grande stagnazione economica in Giappone. Così l’eredità data dal controllo di più di 2.500 attività commerciali e imprenditoriali, per un giro d’affari annuo di circa mezzo miliardo di dollari, fu spartita tra capiclan rivali come Kazao Taoka, oyabun del sindacato Yamaguchi-gumi; Hisayuki Machii, il boss coreano a capo della Tosei-kai; Tadamasa Goto, uno degli oyabun più importanti, soprannominato non a caso «John Gotti del Giappone». Pentitosi nel 2008, dopo aver abbandonato la Yakuza si è rinchiuso in un convento buddhista, da dove ha iniziato a collaborare con l’Fbi sugli affari della criminalità giapponese negli Stati Uniti e dei presunti legami con la mafia nordcoreana. Goto avrebbe stretto un accordo con il Bureau già nel 2001, e questo ha determinato una progressiva diminuzione del potere della Yakuza e uno smantellamento della sua struttura familistico-criminale. Ad approfittarne sono oggi i gruppi criminali stranieri, che si accontentano di garantirsi il controllo di singoli settori del mercato illegale ma che - a differenza della mafia tradizionale - non disdegnano l’uso arbitrario della violenza.

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